
Partire in pullman per il “treno della memoria”. Un professore e la sua classe in gita scolastica per otto giorni (con due notti di viaggio): da una cittadina del Nord Est fino a Berlino, Cracovia e Auschwitz. Visite a musei, giochi di ruolo e appello ai sentimenti. Con una nota finale sull’organizzazione.
Prima notte: partenza
Sono le 20.00. Arrivo con largo anticipo per fumare una sigaretta senza dare nell’occhio. Sotto l’antenna 3G del parcheggio del cimitero c’è J., uno degli educatori che ci accompagnerà.
«Pronti?… Sei già stato?». Chiedo io.
«È il terzo viaggio che faccio».
«Ma tu sei… come sei inquadrato? È uno stage?».
«No, sono volontario».
«Ma vi pagano attraverso un rimborso spese…?».
«No, no, sono volontario volontario, mi rimborsano il viaggio».
J. è socio di Terra del fuoco Trentino, l’associazione alla quale la nostra scuola si è appoggiata. L’abbiamo conosciuto durante la formazione che si è svolta da noi e che è parte del “pacchetto”.
Il pullman sembra uno di quei normalissimi mezzi che circolano la mattina per accompagnare gli studenti a scuola. Posti disponibili 63, passeggeri 63. Destinazione Berlino, durata prevista 16 ore. L’idea degli organizzatori è quella di pernottare in pullman.
Primo giorno: Berlino
È l’alba, non ho idea di dove ci troviamo. Scopro, grazie al navigatore, che siamo in un tratto di strada tra Norimberga e Lipsia, immersi in un paesaggio sfocato dalla nebbia. La luce è grigia, fredda e l’aria all’esterno sembra gelida. Dentro invece, il caldo è quasi soffocante. I pochi svegli bisbigliano per non disturbare chi è riuscito a prendere sonno.
All’arrivo ho già perso la cognizione del tempo. Scendiamo dal pullman, la città non ci accoglie con delicatezza: il clima è rigido, il cielo è carico di nuvole, e il vento s’insinua tra i vestiti con una brutalità che nessuno aveva previsto.
Altre scolaresche si accalcano sul marciapiede di fronte all’ostello. Siamo solo uno dei 12 pullman che viaggiano nella stessa settimana con la Terra del fuoco Trentino. In totale 589 tra studenti e professori, più 30 educatori del Treno della memoria. La provenienza sembra soprattutto da scuole trentine; poi ci siamo noi e qualche classe almeno dall’Emilia Romagna e dalla Sicilia. Questi alti numeri giustificheranno gli orari massacranti dei giorni successivi secondo la necessità di scaglionare visite e partenze.
Una ragazza legata all’associazione ci accoglie. Si presenta anche lei come educatrice, ci dice che ci guiderà in quei giorni per Berlino, ci dà le istruzioni, ci assegna le camere. Dopo aver sistemato i bagagli e mangiato al volo qualcosa, scendiamo e con l’educatrice raggiungiamo l’Isola dei musei. Davanti al Bose museum ci legge un testo con l’ausilio di un altoparlante portatile: insiste sulla modernità e il progressismo della Repubblica di Weimar, in particolare del rispetto dei diritti civili della comunità LGBT. Sarà un tema, quello del genere, sui cui insisteranno in diverse occasioni gli organizzatori.
Ci spostiamo verso la Unter den Linden e ci fermiamo sulla Bebelplatz e anche qui un discorso riguardo al rogo dei libri del 1933.

Quindi la Porta di Brandeburgo e quasi fosse un’ovvietà, dà il via libera per le foto di gruppo più o meno forzate, selfie, ecc. pare sia tutto così “instagrammabile”.
Al termine, raggiungiamo il memoriale dei rom, poi quello all’interno del Tiergarden dedicato agli omosessuali e infine quello più famoso degli ebrei assassinati d’Europa, con i 2711 blocchi di cemento. A ogni tappa una lettura, che comincio a capire, è parte di un’antologia. Le parole si mescolano ai rumori della città: il suono dei passi, il vociare in lontananza, il traffico che scorre lento. Mentre passeggiamo si parla e si scherza come se niente fosse.
Com’era d’aspettarselo, all’interno del memoriale degli ebrei, alcuni studenti giocano a nascondino, altri a prendersi, mentre la maggior parte vaga pensierosa.
Secondo giorno: Ravensbrück – Treptowerpark – East side gallery
Alle 5.45 suona la sveglia. Tutti sul pullman con un sacchetto per colazione e pranzo che gli organizzatori ci hanno consegnato.
Il viaggio dura circa un’ora e mezza. Alcuni tentano di dormire. Fuori dal finestrino, la città lascia il posto alla campagna. Attraversiamo la cittadina di Fürstenberg, fino a raggiungere la riva del lago Schwedt, proprio alle porte del campo di Ravensbrück. Scendiamo, nevica ancora. Tutt’intorno, il paesaggio è dominato da alberi spogli e dal profilo della graziosa cittadina medievale. Ci invitano ad andare in bagno che è una struttura recente a forma di parallelepipedo che fa anche da bookshop. C’è anche un grande plastico del campo.
Dopo un’attesa interminabile sul parcheggio innevato – mi sembra di capire che ci siano dei problemi organizzativi, forse il pullman di un’altra scolaresca è in ritardo – arriva la guida che si muove agitata, sembra di fretta e irritata. Ci mostra prima il villaggio degli ufficiali delle SS e delle sorveglianti, un gruppo di casette dall’aspetto vezzoso con i muri dipinti in un giallo pastello e i tetti spioventi, sembrano più eleganti case vacanze che abitazioni appartenute a carcerieri.
Finalmente entriamo nell’edificio principale che è tirato a nuovo, con un restauro recentissimo. La guida ci raduna in una stanza, stiamo un po’ in piedi, in molti seduti a terra. Io individuo il termosifone e mi ci attacco. L’arredamento è essenziale, quasi spoglio, un piccolo tavolo sulla destra e una sedia, alle pareti foto di SS e uno schema con le gerarchie dei prigionieri all’interno del campo. Ma l’ambiente appare incredibilmente accogliente rispetto al gelo dell’esterno.
La guida attacca ancora con la Repubblica di Weimar, l’ascesa del nazismo, ecc. Faccio caso a una frase: “c’erano due partiti antidemocratici, il partito comunista e il partito nazionalsocialista”. Dunque i comunisti sono cattivi come i nazisti, ma poi sono anche vittime. Tutto ciò mi sembra creare dei cortocircuiti mentali come quando la stessa guida ci parla del caso di Milena Jesenskà, comunista, traduttrice di Kafka, che riuscì a salvare moltissime donne per poi morire nel campo. Cosa dovremmo fare? Empatizzare con lei o no?

Usciamo dall’edificio ed entriamo nel campo vero e proprio. Gran parte delle baracche sono state demolite, quello che rimane è una parte dell’infermeria e dei laboratori, ma anche questi spazi sono vuoti, riempiti con alcune sculture di ferro con appuntate al petto i simboli della discriminazione.
La guida racconta che Ravensbrück, costruito nel 1938, era un campo femminile e ha ospitato principalmente tedesche e polacche, oppositrici del regime, Testimoni di Geova e donne sposate in quelli che il Reich definiva “matrimoni misti”. Insiste sulle procedure di disumanizzazione: lì, su quel piazzale venivano rasati i capelli. Siamo tutti invitati a immaginare e a immedesimarci nelle dure condizioni di vita del campo. Poi ci parla degli esperimenti medici: sterilizzazioni forzate, aborti imposti, infanticidi, operazioni senza anestesia, test di farmaci, amputazioni e infezioni indotte.
A un certo punto, si ferma, ci scruta. La maggioranza sono ragazze. Con voce ferma, ci pone una domanda: «Qual era, secondo voi, uno dei principali problemi per le prigioniere?».
Le espressioni rimangono impassibili, ma la risposta è chiara a tutte. Qualcuna sussurra: «Le mestruazioni». «Esatto». La guida annuisce: «Provate a immaginare: essere qui, al gelo, e non avere nulla per gestire il ciclo mestruale. Dopo un mese di malnutrizione, i loro corpi erano così debilitati che il ciclo si interrompeva del tutto».
B. abbassa lo sguardo, fissa la punta delle scarpe. Immagina la neve macchiata di rosso. Pensa a quelle donne, a come in pochi mesi perdessero ogni tratto che le distingueva, fino a non riconoscersi più nemmeno come esseri umani. Sente la sua espressione cambiare, il nodo alla gola farsi più stretto. Istintivamente, si guarda attorno, cercando nei volti delle compagne un segno che confermi che anche loro sentano quello che sente, ma non riesce a riconoscere il suo sgomento nei loro visi. N., per esempio, non riesce a commuoversi. C., che sta sotto al suo ombrello, è distratto: smuove la neve con le scarpe e scambia battute con due amici alle sue spalle. B., invece, non riesce a togliersi dalla testa quella macchia rossa sulla neve. Anche P. rimane scioccata. Io mi chiedo se possiamo noi, alla luce dei nostri comfort, immedesimarci realmente.

La visita al campo termina con i forni crematori. Gli educatori avvertono come regola generale, anche delle prossime visite, che non c’è nessuno obbligo, solo chi vuole entra. Entrano tutti, in fondo, siamo qui per quello… N. nota come siano stranamente puliti, sistemati, che qui l’orrore in realtà risulta nascosto. Ma poi che ci sarà mai da vedere in un forno crematorio? Niente, mi dice un ragazzo, però è impressionante pensare che evidentemente non c’era altro modo di uscire dal campo. Fuori ci sono lumini e rosari, N. pensa: i cattolici sono dappertutto.
Per finire un’altra lettura. Mi fanno notare che la nostra educatrice berlinese si commuove mentre parla, qualcuno allude al fatto che o è troppo sensibile o che reciti una parte.
È ora di pranzo. Si rientra nel pullman e si mangia quel che resta del sacchetto della mattina. Direzione Treptowerpark, il memoriale delle vittime dell’Armata rossa nella battaglia di Berlino. Sono contento di andarci, è un posto sorprendente per l’impatto scenico con quell’enorme soldato russo che con la spada spezza la svastica mentre trae in salvo una bambina. Anche lì, prima di entrare, una lettura. Poi, via libera. Tutti sembrano divertirsi senza prestare attenzione al luogo e al fatto che sia un cimitero. Troppo occupati a lanciarsi palle di neve.
Al termine, ci facciamo scaricare all’East side gallery per vedere il Muro. Alcuni lo immaginavano diverso, più imponente, più alto, più spesso. Al bacio di Breznev e Honecker scattano le foto.
Terzo giorno: Cracovia e giochi di ruolo
Altra sveglia presto, alle 5.00 siamo già in piedi. Stessa formula di ieri, subito sul pullman con il sacchetto del pranzo: direzione Cracovia, 10 ore previste.
Arrivati. L’ostello è quasi tutto per noi. Il programma del pomeriggio prevede alcuni giochi di ruolo in giro per la città organizzati dagli attori dell’associazione teatrale Itaca che, cominciamo a capire, viaggia con la comitiva del Treno.
Il punto di ritrovo è fuori dalla basilica di Santa Maria. I giochi di ruolo lasciano perplessi. Ci fanno fermare in tre punti del centro per mettere in scena degli spettacoli che fatichiamo a capire. In una piazzetta del centro, l’attore con tanto di stivali e cappotto grigio si atteggia alla Hitler, ci fa dividere in due gruppi, posti uno di fronte all’altro, ci mette in riga, ci ordina di marciare sul posto cantando insieme a lui Deutschland, Deutschland über alles. N. ci prova a marciare ma capisce che l’esercito non fa per lei. Io mi sottraggo e non sono l’unico. Una sessantina d’italiani in piazza a Cracovia che fanno i nazisti e cantano l’inno tedesco? Mi chiedo se la polizia sia stata avvertita, che non ci siano equivoci.
Quarto giorno: ghetto ebraico – Fabbrica di Schindler – Bent
Prima sveglia a orario ragionevole, sono le 7.00 e finalmente una vera colazione in un ristorantino vicino l’ostello. Riprendiamo il pullman, ma questa volta per poco. Ci spostiamo fuori dal centro per visitare il ghetto ebraico e la vicina Fabbrica di Schindler. Ci aspetta una guida che tra le prime cose, insiste sulla solidarietà dei polacchi nei confronti degli ebrei, in particolare del farmacista all’angolo della piazza che ha salvato diverse vite. La cosa mi suona particolarmente strana perché per quel poco che so l’attitudine generale dei polacchi nei confronti degli ebrei fu affatto diversa. Scopriamo, tra le altre cose, che lì ha abitato anche il regista Polanski.
Della Fabbrica di Schindler rimane poco o niente, qualche gavetta smaltata e, di fatto, solo l’ufficio di Oskar Schindler, anzi due uffici: il primo, quello allestito per il film di Spielberg (Schindler’s List, 1993), piccolo e con le vetrate che danno sugli ambienti della fabbrica; il secondo, quello vero, spazioso e con ampie finestre. Il museo, che deve la sua notorietà proprio al film, ospita un percorso tortuoso nella storia di Cracovia dall’occupazione nazista alla liberazione, con elementi esperienziali abbastanza stucchevoli. C’è una sezione di tram dell’epoca nella quale sperimentare la segregazione razziale su mezzi pubblici; un tappeto gommoso per provare la sensazione di incertezza affrontata dagli ebrei nella deportazione. C’è un po’ di tutto, anche una gigantografia di Karol Wojtyla.
Ciononostante, il museo è in lavori di ampliamento. La guida mi spiega che quando è stato creato, una decina di anni fa, non ci si aspettava quell’affluenza, ma che ormai è diventato una tappa obbligata dei turisti della memoria.
Dopo aver pranzato nei pressi del vecchio mercato del quartiere ebraico con un’enorme zapiekanka – una mezza baguette riccamente farcita – ci dividiamo in due gruppi: chi decide di dedicarsi allo shopping e chi decide di seguire i professori al Museo Czartoryski per vedere la Dama con l’ermellino.
In serata, presso una piccola sala, assistiamo allo spettacolo teatrale Bent messo in scena sempre dalla stessa compagnia. È uno spettacolo ideato da Martin Sherman nel 1979 sulla persecuzione degli omosessuali durante il nazismo.
Quinto giorno: Auschwitz-Birkenau
Sveglia alle 4.00, si va ad Auschwitz, la tappa fondamentale. Ci vestiamo con tutti gli indumenti pesanti che abbiamo, nella convinzione che ad Auschwitz faccia per forza più freddo che altrove.
Il campo è a un’oretta da Cracovia, in aperta campagna, si direbbe, nel nulla. Nel parcheggio antistante ci sono altri pullman, riconosciamo le altre scolaresche del Treno. L’accesso al campo è nuovo, una struttura di cemento imponente che ricorda l’entrata di un aeroporto. Mentre siamo in coda, notiamo sorpresi un paio di bancomat proprio lì sul muro d’ingresso.
Siamo in tanti, in fila a zig-zag, passiamo attraverso i controlli, tornelli e metaldetector. La guida mi dice che è il museo più visitato al mondo, due milioni di visitatori l’anno e mi stupisce, non solo la classifica, ma anche scoprire che Auschwitz non è quello che rimane di un campo di concentramento, ma un vero e proprio museo.
Superati i controlli, ci consegnano le cuffiette e il ricevitore per la visita guidata. Quindi, percorriamo un lungo e stretto camminamento delimitato da altissime mura in cemento in cui risuona, in filodiffusione, l’interminabile elenco dei deportati.
Svoltiamo a sinistra e ci ritroviamo all’ingresso del campo sotto l’insegna Arbeit Macht Frei. Mentre scattano le foto di rito, osservo quella scritta ondeggiante che mi ricorda l’ingresso di un parco giochi. Chiedo alla guida se sa qualcosa sulla scelta grafica, sul font, sul progettista, sul fabbro. Non sa, ma ho l’impressione che trovi la domanda blasfema.

Entriamo e iniziamo il giro delle baracche che sono rimesse a nuovo, riscaldate. Qui e là gli attori che ci accompagnano leggono dei brani, tra tutti riconosco Primo Levi. All’interno, gli arredi sono concepiti come un museo degli orrori e non tutti reagiscono allo stesso modo. Si punta a sconvolgere il visitatore per fissare nell’emozione la repulsione nei confronti della violenza. N. e M. si tengono la mano e piangono. Anche altri cercano conforto in un piccolo gesto necessario. N. si sente un po’ a disagio ma le si spezza il cuore a pensare a ciò che è accaduto e deve piangere. La maggior parte, tuttavia, pare indifferente, forse perché sembra tutto artefatto. T. bisbiglia all’orecchio di B.: «Siamo noi il problema se non piangiamo?».
B. risponde con un deciso no, talvolta l’apatia, l’apparente insensibilità sono solamente meccanismi di difesa. F., a un certo punto, mi confessa il disagio e il senso di colpa nel non riuscire a emozionarsi, nel non riuscire a fare ciò che bisognerebbe fare. Auschwitz è pensato così, devi piangere, o in qualche modo impressionarti, sennò è un problema, ti senti un bystander.
Io rimango per lo più in un pietoso silenzio di fronte ai tessuti fatti coi capelli dei deportati, alle valigie ammassate, alla montagna di scarpe, alle gigantografie dei corpi denutriti. Ho un moto di fastidio, allargo le braccia, quando in mezzo a una stanza, in una teca, ci sono le scarpette di un bambino all’interno delle quali la mamma aveva ricamato il nome, Amos, affinché non le perdesse… e ha perso la vita. Volete farmi piangere? Questo obbligo della commozione, lo trovo esibito. Il dovere di guardare, si dice, ma guardare cosa? Paradossalmente, il mio è lo sguardo del carnefice. Non ci vorrebbe delicatezza nel raccontare la morte di Amos?
A un certo punto, la guida ci invita a scegliere tra le foto segnaletiche dei deportati quella che ci colpisce di più e di appuntarci il nome che poi servirà per la commemorazione finale. Anche qui, è lo sguardo delle SS, sono le foto scattate per schedarli. B. trova sbagliato fotografare il ritratto di una persona che sicuramente non voleva essere ricordato così. Esegue la richiesta controvoglia.

Ultima tappa del tour, la camera a gas. P. stringe forte la mano della sua amica e appena entra sente un senso di angoscia e repulsione che la pervade. N. si sente sporca a camminare lì dentro. Siamo in fila indiana e mi chiedo: non dovremmo fermarci sull’uscio?
I. nota dei segni chiari sulle pareti annerite. Mi chiede impressionata: «Sono dei graffi?». «Non credo, no. Sembrano troppo regolari, come fatti con un raschietto». Diversi studenti rimarranno convinti di aver visto nelle camere a gas i graffi delle vittime.
Uscendo dal campo un gruppo di turisti ci sfila di fianco con un bollino giallo sulla giacca. Immagino per non perdersi, ma possibile? Non sarà mica un gioco di ruolo?
Nel parcheggio, ci danno il solito sacchetto per il pranzo, col divieto, però, di salire sul pullman per mangiare, poiché l’autista è arrabbiato per la sporcizia che abbiamo lasciato nei giorni precedenti. In piedi e al freddo, ci offrono un bicchiere di tè caldo che gli organizzatori del Treno distribuiscono dal retro di un furgone.
Terminata la pausa pranzo, si parte per Birkenau, che è vicino, una decina di minuti. Fuori dal campo di sterminio ci sono lavori in corso, chissà un parcheggio o una struttura ricettiva per turisti come ad Auschwitz.
A Birkenau la visita sarà infinita. Il campo è gigantesco. Camminiamo all’interno per 3-4 ore tra le rovine delle baracche, la neve e il vento, nelle cuffiette il commento della guida. Ogni tanto ci fermiamo per delle letture. Birkenau, tranne alcune baracche dove hanno riprodotto i letti a castello, ha subito un semplice restauro conservativo. Questo, ci fa notare la guida, per evitare, tra l’altro, i sospetti dei negazionisti.
A M. sembra che ogni centimetro di quella terra rossa sia ancora intriso di grida, di passi, di sguardi pieni di terrore. B., e non è l’unica, è esausta, la stanchezza pesa sulle palpebre e il freddo non aiuta. P. vorrebbe tornare a casa da sua mamma. Io, a un certo punto, smetto di ascoltare la guida, non ce la faccio più.
In fondo al campo, c’è l’area dei memoriali. È il momento della commemorazione finale. I ragazzi sono invitati uno alla volta ad avvicinarsi al microfono e pronunciare il nome del deportato segnato ad Auschwitz seguito da un “ti ricordo”. Molti, con imbarazzo, si lamentano dei cognomi pieni di consonanti che non sanno pronunciare. Altri la trovano una cerimonia che strumentalizza ancora una volta le vite già strumentalizzate dei deportati. Il tutto sfocia nella confusione, le voci si sovrappongono, i nomi si perdono nel rumore di sottofondo. Con N. ragioniamo sull’imposizione del ricordo, sarebbe meglio che chi non se la sente non lo facesse. Fatto così per fare, ottiene l’effetto contrario. Ragioniamo anche sul fatto che quei volti, che ci siamo appuntati, sono disumanizzati dai nazisti e sarebbe meglio, per ridargli dignità, ricordarli nella loro vita quotidiana, prima dell’arresto. Al ritorno in Italia, farà una ricerca in internet: il nome che si è appuntata, Franciszek Ciszewski, fortunatamente ha delle tracce in rete. C’è una foto in borghese, era un medico polacco, aveva trent’anni quando è entrato nel campo. Queste informazioni basteranno a ridare senso a quella commemorazione altrimenti estemporanea.
Al termine della commemorazione mi ritrovo da solo, non so perché ho perso di vista il gruppo e devo raggiungere in tutta fretta il pullman.

L’autista mi vede arrivare sconvolto: «Mah Birkenau… non c’è niente da vedere; almeno ad Auschwitz c’è qualcosa».
Molti sono esausti. A P. quell’intero pomeriggio sembra irreale, un sogno confuso pieno di emozioni che non riesce a capire e che la lascia un po’ stordita. Si rifugia nella musica. Nel viaggio di ritorno, M. ripensa alla giornata: è la forza che ci diamo a vicenda a fare la differenza. Quando le parole non bastano e il dolore è troppo, è la solidarietà – un braccio che sostiene, una mano stretta, uno sguardo complice – a tenerci in piedi. Perché nessuno può portare tutto questo da solo. Abbiamo guardato l’orrore negli occhi e da oggi, il nostro compito è chiaro: ricordare. Sempre. Perché il silenzio non torni a essere complice.
Sesto giorno: assemblea plenaria
Ultimo giorno, sveglia alle 7.00. Giornata lunga, alle 22.00 dobbiamo ripartire con la solita idea di dormire in pullman. La mattina scorre tranquilla, noi professori siamo liberi, i ragazzi invece sono impegnati in un’assemblea alla quale non siamo invitati per garantire una maggiore libertà di opinione. È in preparazione della cosiddetta plenaria, cioè l’assemblea di tutti i partecipanti al Treno che si terrà il pomeriggio in un auditorium della città.
Nel salottino dell’ostello, qualcuno prende una sedia, qualcun altro si siede direttamente per terra. Gli educatori propongono di raccontare cosa gli ha lasciato questo viaggio. Sguardi bassi e lungo silenzio. Poi qualcuno prende coraggio e il resto viene da sé. Si parla di memoria, di diritti, di libertà. C’è chi mette in luce i punti forti del progetto, chi invece sottolinea le cose che non hanno funzionato. A un certo punto viene fuori un discorso sul senso di colpa, su quella sensazione strana che ti porti dietro dopo la visita al campo. B. dice che secondo lei quel senso di colpa va trasformato, altrimenti non serve a niente. Non ci si può sentire colpevoli per qualcosa che non si è fatto, ma ci si deve sentire responsabili di ciò che si può ancora scegliere. Si domanda, e lo domanda anche agli altri, quanto sia giusto che la memoria oggi venga vissuta come un dovere. Un obbligo emotivo, spesso, più che intellettuale. Ci viene chiesto di ricordare, ma quasi sempre attraverso l’emozione, la commozione, la lacrima. Raramente ci viene chiesto di comprendere. B. crede che il nostro compito non sia semplicemente ricordare. Non si può ridurre la memoria a un gesto meccanico, a un rito collettivo che si consuma e si esaurisce nel tempo di una cerimonia. La memoria dev’essere attiva, cosciente, pensata. Deve essere lo strumento attraverso cui si decodifica il presente, non solo un modo per piangere il passato.
Terminata l’assemblea devono elaborare una “restituzione”, così la chiamano gli organizzatori, ovvero preparare una rappresentazione che verrà messa in scena nel corso della plenaria. Fanno fatica a trovare una direzione, ma alla fine qualcosa viene fuori.
Così il pomeriggio ci ritroviamo nell’auditorium con gli altri del Treno. È un grande emiciclo e noi che siamo più di seicento ci stiamo larghi. Sono curioso perché fare un’assemblea in seicento persone sarà difficile, penso. E, infatti, non è un’assemblea ma uno spettacolo piuttosto prevedibile, a tratti imbarazzante. Ci sono delle letture, dei discorsi, e ogni gruppo mette in scena quello che ha elaborato nell’assemblea della mattinata. Sul palco ci sono degli scatoloni che compongono la scritta Indifferenza. Ogni gruppo al termine della rappresentazione ne porta via un paio. C’è anche musica di sottofondo. A un certo punto sento Blowing in the wind di Bob Dylan.
Terminato lo spettacolo, gli educatori si abbracciano e il gesto si diffonde.
Ultima notte e arrivo
Dopo cena, raggiungiamo il nostro pullman e si parte, direzione Italia. Sono le 22.00, arrivo previsto per le 12.00.
Quando sorge il sole, siamo praticamente in Italia e il clima si fa a tratti festoso. L’autista salta molte fermate per arrivare il prima possibile.
Siamo arrivati, è mezzogiorno ma potrebbe essere qualsiasi ora. Prendo la valigia e sconvolto saluto tutti. Trascino il trolley verso casa, e dire che all’andata mi ero fatto accompagnare perché mi sembrava lontano. Ora, dopo aver camminato per ore al freddo, sulla neve, mi appare tutto più leggero.
Il giorno dopo, siamo tutti a scuola, anche quelli che hanno la febbre. Ci capita di pensare che la scuola dovrebbe essere così, un viaggio senza limiti di orario, senza burocrazia, un incontro tra generazioni. Discorsi da fare, non appunti da prendere.
Nota sul viaggio e sull’organizzazione
Terra del fuoco Trentino organizza i “Treni della memoria” per le scuole del Nord-est e fa rete con altre associazioni che si occupano delle altre regioni d’Italia secondo uno schema articolato: Terra del fuoco Trentino è socia fondatrice dell’associazione Treno della Memoria, insieme a Terra del fuoco Mediterranea di Lecce che si occupa del Sud, e alla cooperativa Babel che si occupa del Nord-ovest. Sia Terra del fuoco Trentino, sia Terra del fuoco Mediterranea,sono costole di un’altra associazione di Torino, Terra del fuoco,la quale nel 2005 ha organizzato il primo “Treno della memoria” (in pullman) e dal 2010 detiene i diritti sul marchio “Treno della Memoria”, nonostante sia stata la Regione Toscana, nel 2002, la prima a organizzare un viaggio chiamato “Treno della Memoria” – dal momento che viaggiavano veramente in treno.
Si comincia con una formazione: 14 ore in totale, 9 a distanza (un po’ da scuola, un po’ da casa) e 5 in presenza, per insegnanti e studenti. A farcela è stata il ragazzo che abbiamo trovato alla partenza. Mi ricordo quel giorno perché avevo la prima ora e dovevo accogliere il formatore. Mi ero chiesto: chissà quale esperto ci hanno mandato? Inizialmente, io non ero stato coinvolto nel progetto, ne sapevo poco e non dovevo nemmeno partire. Ingenuamente, pensavo che il Treno della Memoria fosse una sorta di progetto ministeriale. Pertanto, dopo la delusione della formazione a distanza – troppo frontale – avevo grandi aspettative sull’ospite e lo temevo anche perché nei giorni precedenti avevo proposto alle classi coinvolte la lettura di Luoghi della memoria e paesaggi contaminati da decontaminare di Alberto Cavaglion[1] per esercitare i ragazzi a uno sguardo critico nei confronti dei viaggi della memoria. Chissà, mi avrebbe accusato di non capire il dovere della memoria? Quando l’ho visto, ho tirato un sospiro. Uno studente? Un laureando in storia? No, è al terzo anno terzo d’ingegneria. E quella che propone inizialmente è una cronologia essenziale dalla marcia su Roma alla liberazione di Auschwitz su delle striscioline che gli studenti devono mettere in ordine… non è colpa sua, ma si rimane sulla superficie. Al termine crea un gruppo Whatsapp con tutti i partecipanti e il primo messaggio riguarda il merchandising del Treno della Memoria: felpe e berrettini, con tanto di sconto in caso si acquistino entrambi.
Nella stessa settimana si viaggia tutti assieme, potenzialmente da tutta Italia. Il pullman è stato la cifra del viaggio, all’insegna dello stile spartano: un po’ per contenere i costi; un po’ per uno strano senso di colpa “non vorrai mica andare ad Auschwitz in tutta comodità?” come dicono alcuni colleghi; un po’, come chiariscono gli organizzatori, per distaccarsi dal comfort quotidiano e così formare una comunità viaggiante[2]. Il viaggio dunque è economico, 8 giorni a 460 euro (i nostri hanno pagato 500 euro perché gli studenti pagano le quote dei docenti accompagnatori) compresa la formazione iniziale che si svolge in collaborazione con la Fondazione Museo Storico del Trentino, nell’ambito del festival Living Memory. Il marchio registrato conferisce un’immagine di ufficialità e il sito internet www.trenodellamemoria.eu s’impone nelle ricerche.
Il Ministero dell’Istruzione e del Merito prevede da quest’anno lo stanziamento di 2 milioni di euro per le scuole che organizzano questo tipo di viaggi della memoria, anche se non è chiaro a chi andranno i soldi. Tra formazione e viaggio, il “treno della memoria” richiede circa 50 di ore di scuola, equivalente grossomodo al monte ore annuale previsto per l’insegnamento della storia (infatti, le 66 ore annue ufficiali sono decurtate da PCTO, viaggi, progetti, conferenze, ecc.; quelle che si svolgono effettivamente sono in genere una cinquantina). Si tratta, inoltre, di un progetto che deroga al regolamento viaggi d’istruzione che, almeno nella nostra scuola, prevede per le classi quarte una durata massima di quattro giorni.
Tutte le immagini sono di Ganz Niemand (ndr).
[1] Alberto Cavaglion, Luoghi della memoria e paesaggi contaminati da decontaminare, edizione elettronica a cura di Filippo Benfante, con la collaborazione degli altri redattori del sito storiamestre.it. https://storiamestre.it/wp-content/uploads/2019/09/ACav_AssisiDEF.pdf. Vedi anche dello stesso autore, Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, add editore, Torino 2021.
[2] Vedi la brochure scaricabile dal sito www.trenodellamemoria.eu.
Cronaca molto precisa e realistica rafforzata da foto significative … ricordo indimenticabile!