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Casannoni del “Nord Est”

di Piero Casentini || Elementi del paesaggio 29/05/2025

In occasione di una mostra di foto aeree allestita da Saverio Bonato a Bassano del Grappa. Case-capannoni-aziende ritratti da un aereo da turismo negli anni Novanta. Documentazione involontaria di una fase storica ed economica di una porzione del Veneto.


Pare sia stato Nadar a sperimentare, per primo già nel 1858, le foto aeree a bordo di un aerostato, ma quegli scatti sono andati perduti. La più antica foto aerea oggi conservata risale al 1860, fu scattata dallo statunitense James Wallace Black; s’intitola Boston as an Eagle and the Wild Goose See It, Boston come la vedono l’aquila e l’oca selvatica e fu presa da una mongolfiera a 350 metri d’altezza. Più tardi, e più modestamente del collega Wallace Black, il tedesco Julius Neubronner ebbe l’idea di legare una macchina fotografica alle zampe dei piccioni[1]. In Italia, le prime immagini aeree furono realizzate sul finire dell’Ottocento, da un pallone frenato sospeso sul cielo della capitale, a catturare il Foro Romano[2]. Dagli albori della fotografia, dunque, il sogno di vedere e immortalare dall’alto il paesaggio, a imitazione dei volatili, ha appassionato i pionieri della scrittura con la luce – dal greco antico φῶς, phôs ossia “luce”, e -γραφή, graphè cioè “disegno, scrittura”. Con il passare del tempo, poi, sia il volo che la fotografia divennero mezzi meno costosi ed elitari, accessibili a un numero sempre crescente di persone.

Le fotografie aeree raccolte da Saverio Bonato si situano temporalmente nell’ultimo quarto del XX secolo e spazialmente in una porzione di Veneto, allora “locomotiva d’Italia”, tumultuosamente approdato a un benessere operoso, prima di allora mai così potente e diffuso. Il Veneto era stato terra povera, di pellagra e di emigrazione; la dedizione al lavoro, sovente unico metro per misurare l’umanità non solo maschile, e l’inventiva di molti che adattavano il garage a officina, lo stavano trasformando, non senza lacerazioni e malattie, da terra contadina a territorio artigianale e industriale. Il “progresso scorsoio” che Andrea Zanzotto avrebbe più tardi sancito[3], sembrava allora lasco e non più imbarazzante delle cravatte in stile Memphis che occhieggiavano ai Navigli, al gioco e alla postmodernità in una terra, quella veneta, dove nei canali si scaricava ogni tipo di liquame, di giocare non si aveva tempo e dove la modernità era arrivata, sino ad allora, forse solo nei capoluoghi. Simbolo di quello scorcio di secolo era, è, il capannone e ancor più la sua versione ibrida, la casa-capannone da cui l’espressione “casannone”.

Casa e lavoro contigui, talvolta sovrapposti, a efficientare il tempo che, si sa, è denaro.

Oggi in Veneto si conta un capannone ogni 54 abitanti, mentre 9 mila giacciono in stato di abbandono. Nel 1986, e cioè nel pieno dell’accelerazione economica ed edificatoria che travolse quello che Goffredo Parise aveva chiamato “Veneto barbaro di muschi e nebbie”[4], un altro scrittore vicentino, ma trapiantato in Inghilterra, Luigi Meneghello, si cimentò nella traduzione in vicentino della poesia Kubla Kahn di Coleridge. Nella cinquantina di versi, l’autore ottocentesco, svegliatosi da un sogno rarefatto dall’oppio, descrive la città di Xanadu dove il Kubla Kahn aveva fatto erigere a “pleasure-dome”, “uno palagio […] molto bellissimo”, come lo descrisse Marco Polo a Rustichello da Pisa che sul finire del Duecento trascrisse, con svariate licenze, il Milione. Meneghello volle tradurre “pleasure dome” con capannone, “l’edificio”, scrive, “che tutti costruivano (in Alta Italia o almeno qui in provincia) […] non c’era un conoscente che non facesse o non avesse un capannone: e questo, tutto sommato, è stato il più adatto equivalente locale che ho saputo trovare per significare il palagio molto bellissimo, il pleasure-dome di Kubla Khan. È chiaro che dome qui non vuol dire cupola, ma io una cupola al mio capannone ce l’ho messa lo stesso”. Ecco come suonano le prime due terzine di Coleridge tradotte da Meneghello:

A Sanadu kel can da l’os d’on Kubla Can

El ghea dà ordene k’i fesse on gran palasso,

On capanon co la so cupola.

Nobile capanon de Kubla Can!

Orcocan, Kubla Can, ke capanon!

Can da l’os d’on Kubla Can![5]

E se la parola non è altro che un accrescitivo di capanna, come si legge nei dizionari, c’è da immaginarsi all’interno delle migliaia di capannoni veneti altrettante natività, con al posto dei buoi e degli asini, torni, frese e presse, a vegliare il bambinello del benessere, il pil venturo annunciato dalla buona attesa di crescita infinita.

Le foto aeree raccolte e selezionate da Saverio Bonato fissano, a volo d’uccello, un momento di passaggio: campi verdi si contendono ancora il suolo con strade ed edifici, case contadine raccolte intono ad aie polverose resistono dignitosamente all’allargarsi di quella città continua che è oggi la pianura veneta. Una distesa senza soluzione di continuità di fabbricati, affastellati senza ordine intorno alle propaggini periferiche del largo rettilineo, sempre illuminato e costantemente percorso da mezzi su gomma, che collega Trieste a Milano. In questo “allegro cupo incubo”[6], come scriveva Parise a Giovanni Comisso, altro scrittore che aveva conosciuto e descritto un “Veneto felice”[7] preindustriale, ci siamo anche noi, che guardando queste foto aeree vecchie di una quarantina d’anni ci stupiamo nel riconoscere i posti che abitiamo e percorriamo, sorprendendoci quando alle labbra risale, come un rigurgito di stucchevole nostalgia, un pensiero liso e al contempo sempreverde: com’era, com’era bello, si stava meglio quando si stava peggio, insomma; quando non c’eravamo, quando il futuro non era l’altroieri, quando non c’erano i droni a ronzare nei cieli e per scattare una foto aerea si volava davvero. Qualche giorno fa, camminando per il quartiere dove abito, in un’aiuola compressa tra la carreggiata e un parcheggio privato a uso di un condominio, un colombo stramazzato giaceva sull’erba uniforme, di un verde sospetto. Avvicinandomi mi accorsi che era di plastica e mi chiesi se il volatile avesse avuto il tempo di accorgersene, o se non fosse stata proprio quella sorpresa angosciante a ucciderlo, magari dopo aver beccato affannosamente gli steli sintetici. Se fosse stato uno degli antichi colombi di Neubronner, pensavo, forse l’ultimo scatto ravvicinato avrebbe immortalato un’ordinata struttura polimerica senz’acqua e senza vita, immobile e pressoché eterna, mentre sospeso sul manto puntuto, il colombo fotografo già rinsecchiva e si trasformava, sino a dissolversi, come tutto ciò che è vissuto.

Nota. La mostra “Nord Est!”, a cura di Saverio Bonato, è stata aperta alBBDB Studio di Bassano del Grappa (Vicenza) dal 25 ottobre 2024 al 29 febbraio 2025. Rispondendo ad alcune nostre domande, Bonato ha precisato che si tratta di una trentina di foto, la maggior parte di privati, recuperate già incorniciate dalle loro case; alcune provengono dallo studio di un fotografo di Magré (una frazione di Schio, Vicenza) che aveva conservato in archivio foto aeree che gli erano state commissionate da clienti. La zona è il Vicentino, non ci sono didascalie o date precise; alcuni luoghi sono riconoscibili, perché le immagini provengono dai proprietari. Il focus della mostra non è solo l’immagine, ma l’oggetto in sé, con la cornice, e il genere fotografico anonimo con un preciso taglio e formato.

Così un testo di presentazione della mostra reperibile online (https://www.instagram.com/casacapra/p/DAoUDOLoNKI/?locale=my&hl=en):

“Durante gli anni ’90 un fotografo e un elicottero partivano da Bolzano per fotografare dall’alto case e aziende dell’Alto Vicentino, per poi rivenderle ai rispettivi proprietari.
Queste foto diventarono un fenomeno diffuso e oggetto di culto per l’immaginario del Nord Est, legato all’idea di proprietà e della casa/azienda. Divennero così un’importante ma inconsapevole documentazione dello sviluppo di un territorio e testimonianza della trasformazione di un’epoca e di un paesaggio.
Insieme a foto originali private, si trovano esposte inoltre le fotografie provenienti dall’archivio del fotografo Armando Mattioli, che con il suo studio Arma Foto di Magrè è stato, a partire dal 1977, uno dei fotografi industriali più attivi dell’Alto Vicentino. Stampate per l’occasione e per la prima volta pubbliche, dando la possibilità di vedere da un’altra prospettiva il paesaggio dell’Alto Vicentino”.

Saverio Bonato, autore della mostra, è un curatore e un artista (http://archive.bevilacqualamasa.it/bonato) che tiene vivo a Schio il centro espositivo Casa Capra (https://www.casa-capra.it/).


[1] Cfr. The Pigeon Photographer, a cura di Nicolò Degiorgis, Audrey Salomon, Rohrhof, Bolzano 2018.

[2] Cfr. Aldo Gilardi, Storia sociale della fotografia, Feltrinelli, Milano 1976.

[3] Cfr. Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio, Garzanti, Milano 2009.

[4] Goffredo Parise, Veneto barbaro di muschi e nebbie, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1987.

[5] Cfr. Luigi Meneghello, Trapianti. Dall’inglese al vicentino, Rizzoli, Milano 2002.

[6] Dario Borso, Comisso e Parise tra Bacco e Venere, https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/comisso-parise-bacco-venere/ (3 aprile 2019).

[7] Cfr. Giovanni Comisso, Veneto felice, Longanesi, Milano 1984.

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