
Appunti sul romanzo di Wu Ming 1, Gli uomini pesce; un romanzo geografico, con protagonista il delta del Po; trasformare gli spazi in luoghi, grazie al racconto storico; immaginare il futuro nell’epoca dell’innalzamento del mare Adriatico.
Giovedì 17 ottobre, sono a Venezia e un amico mi chiama per chiedermi se riusciamo a incontrarci perché ha un regalo per me. Lo conosco, sarà sicuramente un libro. Due ore dopo sono in treno, direzione Udine, con la mia copia de Gli uomini pesce appoggiata sul sedile. Dovrei correggere delle tesi, ma per un geografo la mappa delle valli di Comacchio di Elisée Reclus in copertina è quasi un richiamo ipnotico, vista l’importanza che il suo lavoro ha ancora oggi nell’interpretare lo spazio geografico come un prodotto sociale. Non resisto, chiudo il computer e decido di leggere qualche pagina, ed ecco un’altra mappa: le terre del Delta, il Delta storico, o Delta grande, o meglio l’area che si estende senza confini precisi dal fiume Adige a nord fino alle valli di Comacchio e ancora più a sud, nel Ravennate. Area che trova a est il confine del mare ma verso ovest entra nella pianura a intensità variabile senza un preciso limite.
Due indizi però non fanno geografia, perché “correlation is not causation”. Inizio il libro, e a p. 9, la prima, leggo: “I media parlavano di emergenza idrica, paventavano razionamenti, rubinetti aperti invano nelle nostre case. Io pensavo ai pesci. Cosa capita ai pesci quando un fiume striminzisce e agonizza? Dove vanno? […] Il Po era debole, stremato, e l’acqua dell’Adriatico lo risaliva. Si chiamava ‘cuneo salino’, e ogni anno batteva nuovi record. Il fiume più lungo e possente d’Italia non riusciva più a raggiungere il mare”.
E dopo due pagine, presentando il personaggio del soundscape artist Sonic, Wu Ming scrive:
“Normalmente si andava a vedere il Po, lui invece voleva udirlo… Sì. Sarebbe stato un pellegrinaggio, un tributo a Ilario, che il Po lo aveva vissuto, amato, raccontato, e purtroppo aveva fatto in tempo a vederlo così”.
Immediatamente si cristallizzano negli occhi le immagini dell’estrema siccità che ha contraddistinto l’estate 2022 in tutta Europa, tanto che nel letto di alcuni fiumi sono affiorate le Hungerstein, le pietre della fame, cioè dei massi in cui erano incisi dei messaggi dai toni apocalittici, come “Se mi vedi, stai piangendo”, un monito a ricordo delle pesanti siccità passate.
Ora, più che ipnotizzato, sono leggermente spiazzato: già dopo le prime pagine mi trovo di fronte a due indizi, impliciti a dire il vero, ma che iniziano a far girare gli ingranaggi di quella che per il momento è solo una congettura.
Il primo è relativo a quello che potrebbe sembrare un grimaldello narrativo, una constatazione eccentrica, che alcuni potrebbero bollare – poco garbatamente – come un vezzo dei “soliti ambientalisti”: nell’emergenza idrica chiedersi dei pesci. Lo ammetto, me lo sono chiesto anch’io tutta l’estate del 2022, ma a dire il vero, me lo domando ogni volta che guardo un corso d’acqua. Dove sono finiti i pesci, le rane, i gamberi? Con un atteggiamento probabilmente ingenuo, forse sciocco. Al di là di questa consonanza di pensiero, questa tensione verso la vita dentro ai fiumi, è il primo punto che mi annoto e che poi ritroverò. Sono di fronte a un qualcosa che già dall’inizio vuole accompagnarti verso un cambio di prospettiva: tentare di non mettere noi umani sempre al centro del dibattito, ma di provare a ribaltare la visione antropocentrica e autocentrata verso una più aperta e relazionale dell’ambiente.
Il secondo indizio è forse ancora più affascinante: sono forse di fronte a un libro che mette al centro lo spazio, anzi la geografia? Ma soprattutto mi viene immediatamente in mente il lavoro di alcuni colleghi (Anna Salmond, Gary Brierley e Dan Hikuroa) pubblicato nel 2019 nella rivista Policy Quarterly (vol. 15, n. 3) intitolato Let the Rivers Speak: thinking about waterways in Aotearoa New Zealand. E quindi ascoltare un fiume, come Sonic, assume una diversa sfumatura, alla luce del fatto che nell’articolo i fiumi sono analizzati come agglomerati complessi di rocce e acque (studio geo-idrologico), di piante, di animali e di persone. Una specie di etnografia fluviale che permetta di considerare e miscelare un’ampia gamma di conoscenze proveniente sia dalle scienze naturali che da quelle sociali, in grado di interrogare e tenere in considerazione anche la mätauranga taiao, cioè la conoscenza ancestrale (Maori in questo caso) come sapere utile a una visione integrata dell’ambiente.
Proseguendo con la lettura, aumentano le sottolineature e si infittiscono gli appunti. In men che non si dica gli indizi diventano sempre di più, e non solo per la comparsa di quella che forse è una delle protagoniste del libro, Antonia. Ho scritto “forse” e “una” per un motivo a cui tra poco darò risposta. Ça va sans dire, Antonia non poteva che essere una geografa con la passione per le aree di bonifica e per i territori di transizione: insomma per quei paesaggi che diamo per scontati ma che hanno vissuto delle radicali trasformazioni negli ultimi cento anni. Paesaggi il cui esito oggi sono “lo spopolamento e la rarefazione sociale” (p. 88) e che oggi rappresentano la cartina di tornasole non solo di un fallimento socioeconomico ma anche di quelli che saranno gli effetti del riscaldamento globale.
A seguire, da p. 90 vengono infilati in serie i nomi di alcuni geografi e geografe (di area bolognese o patavina) che hanno fatto la storia della disciplina o quella dello studio delle bonifiche, a partire da Lucio Gambi per arrivare a Franco Farinelli, passando per Marina Bertoncin e Federica Letizia Cavallo, come per Paola Bonora e Stefano Piastra. In pratica inizia pian piano a solidificarsi una impressione sempre più insistente. Non che manchino i riferimenti diretti agli storici come nel caso dei “mari di terra” di Emilio Sereni (p. 58) o quelli indiretti agli studi agrari e sulla bonifica di Franco Cazzola. Sia chiaro.
Nonostante ciò, i tre piani temporali attraverso cui è costruita la narrazione (durante la Resistenza, negli anni ’70, e ai giorni nostri) non servono solo a oliare gli ingranaggi del plot delle vicende umane e a magnetizzare l’attenzione del lettore, ma mi sembra possano rientrare in una strategia di trasporto narrativo verso il vero protagonista dell’intero romanzo: la geografia del Delta del Po. O meglio, una narrazione attraverso la quale si costruisce il “personaggio” Delta del Po.
Ma tornando all’argomento centrale, i punti iniziali che avevano in qualche modo preannunciato un romanzo geografico tornano costantemente nel libro. La biografia del paesaggio deltizio viene ricostruita in modo significativo, grazie ai personaggi che sembrano quasi delle maschere che si muovono nel paesaggio-teatro del romanzo per raccontare la geografia del territorio e i rischi del riscaldamento globale. Mi limito ad alcune suggestioni, anche per evitare l’effetto spoiler per chi non avesse già letto il libro: uno è il tema dell’abbandono – controllato – o “contro-bonifica” (pp. 149-150). Già accennato alle pp. 92 e 93, usando lo stratagemma del meta-libro di Antonia Igor Mortis (titolo che devo dire mi ha strappato un ghigno e più), è un ragionamento fondamentale di geografia sovversiva perché si tratterebbe di tornare a mescolare la terra all’acqua e non continuare nella strada della netta separazione, continuando a pretendere solidità, linearità e certezza dove abbiamo cambiamento e trasformazione. È un vicolo cieco perché si tratta di cambiare il territorio, cosa che però presuppone un cambio di paradigma sostanziale perché dovremmo assumere delle posture non antropo-centrate. Un abbandono visto solo dalla prospettiva umana e non come fattore di co-esistenza, un campanello suonato all’inizio parlando dei pesci ma che diventa una argomentazione più ampia quando viene trattato il tema del ritorno del lupo in alcune aree del Mezzano (pp. 375-384).
Un secondo punto molto interessante è quello relativo all’idea di “far respirare i fiumi” (tornare a udirne la voce, appunto) e quindi provare a dare spazio alle pertinenze fluviali, ragionare sull’allargamento, cioè assumere una prospettiva d’acqua e non di terra. Ma proprio su questo punto a p. 378 troviamo un altro indizio sulla centralità del pensiero geografico perché il naturalista Gennaro, che sta guidando un gruppo di visitatori tra cui la stessa Antonia nella zona di Argenta, dice che “siamo dentro una cassa di espansione per le piene di questi fiumi, e guai se non ci fosse, perché qui confluisce quasi tutta l’acqua che dall’Appennino scende nel bolognese […] i fiumi s’ingrossano, e a volte esondano, e devono avere luoghi così dove possono allargarsi, e notate che non ho detto spazi ho detto luoghi”.
E come fa notare Antonia, la sfumatura, e cioè il passaggio da spazio a luogo è prettamente geografica, come precisa qualche riga dopo sempre Gennaro: “Quando si dice ‘dare spazio al fiume’ si parla in termine di superficie, di metratura, perché si ragiona sulla mappa […] servono dei luoghi viventi, che col fiume siano in simbiosi, luoghi con le loro specificità, e cui avere cura. Purtroppo, si va nella direzione opposta” (p. 385).
È forse normale trovare quel che si vuole in un libro, e si capisce. Tutti noi lo facciamo, tutti noi cerchiamo correlazioni. A volte sembrano pure esplicite. È quello che è stato definito effetto Heisenberg e cioè nel corso dell’analisi, lo scienziato interagisce con l’oggetto dell’osservazione per cui ne consegue che l’oggetto osservato si rivela non come è in sé stesso bensì in funzione dell’analisi. Succede con la fisica, figurarsi con un libro. Ma un contributo a far saldare le correlazioni che vedevo all’inizio è arrivato anche dalla lettura dell’esperimento di scrittura collettiva firmata con lo pseudonimo Moira Dal Sito dal titolo Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende (Edizioni Alegre, 2020). Nell’introduzione a cura di Wu Ming 1 emerge la stessa tensione verso l’analisi territoriale del Delta che poi verrà riversata ne Gli uomini pesce. Tensione che diventa inclinazione e che è confermata dalla pubblicazione sul blog Giap del manifesto collettaneo Tornare nel Delta al tempo della crisi climatica (2024) in cui attraverso una serie di punti si delinea un pensiero-paesaggio grazie al quale provare a leggere il Delta odierno ma anche a immaginare quello del futuro.
A rendere plastici i diversi indizi accumulati ha contribuito moltissimo la partecipata e affollata occasione pubblica di confronto con Wu Ming 1 alla presentazione del libro, il 18 dicembre 2024 presso il centro culturale Zenobia a Venezia.
A un mondo (come a uno studio) ci si avvicina piano piano, perché è pretenzioso risalire all’esatta sorgente di una storia. Chi racconta non è mai soltanto un narratore, perché per narrare ha dovuto ascoltare, leggere, parlare, informarsi e vedere. Una storia alla fine si svolge nello spazio e come per un fiume o per un ruscello è meglio procedere con circospezione e cautela: nascono dall’incontro di rivoli o da piccoli zampilli o da una serie di polle quasi invisibili, e solo per convenzione si può stabilire qual è il corso principale o quale sia la sorgente. Nell’introduzione a Quando qui sarà tornato il mare l’autore ha scritto esplicitamente che questa è una di quelle “opere di avvicinamento al futuro libro” (p. 36). Ebbene s’, c’è già tanto, e si vede lo studio preparatorio come anche la Geografia che si fa Storia.
Oltre a questo, mi sembra che tra le righe ci possa essere una questione geografica ancor più ampia del Delta (una volta si sarebbe parlato di “geografia regionale”): cioè la possibilità di vedere la geografia come immaginazione per rileggere un territorio, quasi omogeneo nei suoi pattern geografici, che va da Monfalcone a Cervia. Da trattare tutto assieme. Perché probabilmente le terre dell’arco adriatico sono accomunate da schemi e da pattern socio-culturali riconoscibili. Se analizziamo i fattori che hanno portato alla trasformazione di questo ampio territorio, per esempio la bonifica del Mezzano o quella avvenuta sopra Caorle, questi sono simili e sono spesso l’esito della combinazione di fattori istituzionali-tecnici-economici ripetuti e ripetibili. Come anche le trasformazioni di corsi d’acqua quali il Cormor, il Reno e il Gorzone: tutti rispondono a logiche identiche e equivalenti. Queste combinazioni sono in grado di generare quei frammenti in cui la moltiplicazione del quasi uguale in realtà ci pone di fronte la specificità dei luoghi e al tempo stesso ci dovrebbe far riflettere sull’universalità dei fenomeni che rendono lo spazio uguale a sé stesso. Infatti, se noi prendessimo e studiassimo delle “porzioni” di questo paesaggio-esteso probabilmente si potrebbero incontrare matrici generative, che ci permetterebbero di entrare nelle pieghe flessibili della trasformazione attraverso le quali si è arrivati alle odierne geografie d’acqua.
Sempre nell’introduzione a Quando qui sarà tornato il mare si svela e prende corpo l’attenzione per la narrazione dello spazio attraverso il tempo, capovolgendo l’assunto. È ovvio, non c’è spazio senza tempo, e non c’è tempo senza spazio, la storia e la geografia non sono dei lontani parenti, ma delle sorelle, forse gemelle. Eppure, ne Gli uomini pesce assume plasticità una sorta di geo-fiction, un libro che va oltre, sconfina, che ci traghetta dal romanzo storico a quello geografico. È un manifesto del romanzo geografico in cui la Storia è chiaramente necessaria e non rappresenta solo uno sfondo, sia chiaro, ma diventa utile soprattutto per parlare di Geografia. O meglio per dare vita a quel processo alchemico-letterario di trasformare gli spazi in luoghi agglutinando i tre piani temporali ma soprattutto celebrando un felice connubio geo-storico: un libro cronotopico!
Ovviamente, come è già stato notato in moltissimi articoli e recensioni, i temi del libro sono moltissimi e forse proprio questa pluralità e coralità di contenuti lo rende cangiante e mesmerico. E per tornare all’inizio di questa breve riflessione, mentre la maggioranza delle pagine iniziava a occupare la parte sinistra del dorso del libro, mi è sembrato che l’invito dell’autore fosse quello di prendere in considerazione una prospettiva idro-centrica che ci consentirebbe di ricercare e pensare altri futuri. Senza sottrarci dal ragionare a proposito di abbandono e/o di trasformazione, anzi, perché, per citare uno scambio epistolare tra me e l’autore del 7 novembre 2024: “se la rinaturalizzazione non è un ‘ritrarsi organizzato’, gestito, curato dagli stessi soggetti che avevano artificializzato, cioè noi, il processo rischia di andare a ramengo”.
I paesaggi d’acqua non sono solo il luogo del “rapporto interrotto” tra esseri umani e ambiente naturale. Sarebbe una visione riduttiva quella di considerare il tentativo di controllare gli effetti di un sistema climatico variabile attraverso la tecnica solo come una storia di alterazione, distruzione e di intrusione degli umani nella natura. È invece necessario tenere in debita considerazione come l’acqua sia stata e tutt’ora sia l’agente dominante del rapporto tra esseri umani, non-umani e ambiente; dove la miscela tra capacità istituzionale, emancipazione dei cittadini, tecnica e cultura, economia e società ha generato quell’ibrido paesaggistico che sono le geografie d’acqua del Delta del Po.

Bibliografia
Sandro Abruzzese, Marco Belli, Davide Carnevale, Cassandra Fontana, Sergio Fortini, Marco Manfredi, Michele Nani, Giuseppe Scandurra, Wu Ming 1, Tornare nel Delta al tempo della crisi climatica. Per cambiare gli sguardi e i metodi d’intervento sui territori, “Giap” online, 2 dicembre 2024, url: https://www.wumingfoundation.com/giap/2024/12/tornare-nel-delta-al-tempo-della-crisi-climatica/
Moira Dal Sito, Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende, Edizioni Alegre, Roma 2020.
Ann Salmond, Gary Brierley, Dan Hikuroa, Let the Rivers Speak: thinking about waterways in Aotearoa New Zealand, “Policy Quarterly”, 15, 3), 2019, pp. 45-54.
Wu Ming 1, Le “terre nuove” destinate a scomparire (raccontate prima che arrivi il mare), in Dal Sito, Quando qui sarà tornato il mare, cit., pp. 7-40
Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, Torino 2024.
L’autore. Francesco Visentin è professore associato in geografia presso l’Università degli Studi di Udine dove insegna Geografia Umana. Si interessa di paesaggio prestando particolare attenzione allo studio dei rapporti tra comunità antropiche e morfologie idrauliche. Conduce attività di ricerca su: patrimonio e patrimonializzazione, l’evoluzione dei paesaggi quotidiani e marginali, gli impatti del turismo sulle comunità e sugli immaginari paesaggistici e le dinamiche dell’abbandono. Si occupa anche delle relazioni che intercorrono tra le pratiche geografiche e quelle artistiche. Tra le sue ultime pubblicazioni: Geografie d’acqua: paesaggi ibridi (Marsilio, Venezia 2024); con Federica Cavallo e Francesco Vallerani, Arcipelago delle maree. Esplorare gli incerti confini della Venezia Anfibia (Cafoscarina, Venezia 2023); con Francesco Vallerani Waterways and the Cultural Landscape (Routledge, London-New York 2018).
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