
Uno studioso di letteratura legge Improvvisi, raccolta di scritti di Gigi Corazzol: suggerimenti di un lettore pagante a editori e curatori; idiosincrasie e affetti; discussioni sui moti dell’animo che accompagnano la ricerca storica.
Questo che si presenta stasera si può considerare il terzo libro di una serie incominciata con Luminello di benedizioni (gennaio 2022) e proseguita con Addio mia bella Clio (settembre 2022), tutti stampati o editi da DBS di Seren del Grappa come già i Piani particolareggiati (quest’ultimo in co-edizione con Pilotto Editrice, 2016). Con la differenza, rispetto ai due precedenti, che questo è tutto di Gigi Corazzol ortonimo, senza la collaborazione dei suoi vari eteronomi, si chiamino Guido Gambaredo, Romano Banco, Carlo Moriggi o Pertinace Elvio Badola.
In questi Improvvisi di Corazzol (titolo che non so se abbia qualche parentela genetica con gli Improvvisi per macchina da scrivere di Giorgio Manganelli) ci sono alcuni articoli più lunghi, come La ghirlanda fiorentina che occupa più di trenta pagine (pp. 30-64) e Tre diari che di pagine ne conta una sessantina (pp. 76-137); e altri più brevi, alcuni con un titolo che dice da dove parla l’io che parla: non da sopra una cattedra, non da uno scranno rialzato, ma Da sotto al fico (tre testi) o Da accanto alla stufa economica (si pensi anche a una precedente raccolta di scritti di Corazzol, Pensieri da un motorino). Titoli che rientrano tutti nella categoria della smorzatura, o dell’understatement.
Dirò dunque qualcosa, alla breve, su alcuni degli articoli più brevi. Con una duplice avvertenza. La prima: in tutti gli articoli del libro, in varia misura, c’è, sotto traccia o bene in vista, un intento comune: mostrare come si dovrebbe fare la ricerca storica, o come si dovrebbe curare l’edizione di un libro, e questo anche, se non soprattutto, dimostrando come non si deve fare, quindi attraverso exempla negativi. La seconda avvertenza invece è questa: Corazzol parla sempre da un punto di vista ben preciso, che è quello del lettore pagante (cfr. a p. 62: “le mie paturnie di lettore pagante”), che ha quindi tutto il diritto di inalberarsi (si potrebbe usare anche un altro verbo al posto di inalberarsi, sempre però con il prefisso in), se si sente turlupinato dagli editori o dagli autori o dai curatori del libro acquistato. Così avviene per esempio che l’autore di questi “improvvisi” non so se ridendo, ma certo facendo ridere chi legge, castighi di volta in volta:
1) i romanzi, estivi e no, che vanno per la maggiore e che sono scritti con i piedi (per chi volesse, esempi esilaranti si leggono alle pp. 12-14);
2) l’esagerato e tutto sommato vano sfoggio di cultura da parte degli accademici. Si veda, a questo proposito, nella recensione a un libro di Nicola Gardini, l’avvertenza a non esagerare con gli eserghi: “Per certi versi somiglia a un coltellino svizzero. I 44 (brevi capitoli) e l’Avvertenza che li precede, sono impreziositi da eserghi. Salvo errore ne ho contati 57, in sette lingue diverse. Tutti autori poi di grossa cilindrata. Fate conto che il più scarso del mazzo (a mio gusto, s’intende) è Marguerite Yourcenar. Con soli sette euro insomma vi portate a casa gratis una mini Ape (poliglotta, non solo latina) del Fumagalli[1]. Un bouquet (ma cosa dico un bouquet, una corona) di flores sententiarum, aforismi, massime e obiter destinati a venir buoni in ogni e qualsiasi circostanza della vita” (p. 26);
3) le antipatie ideologiche degli studiosi che travisano l’evidenza di fatti facilmente accertabili, come si dimostra a proposito di un libro su Erasmo da Rotterdam, in cui si attribuisce a Delio Cantimori la perversa volontà di impedire la ristampa di un’opera come L’elogio della follia, che uscì invece, lui vivo e attivo, presso vari editori e più volte anche presso Einaudi, e persino con una sua prefazione (pp. 68-69);
4) le operazioni editoriali malfatte, anche per eccesso oltre che per difetto, specie se il curatore si lascia prendere dalla voglia di gareggiare con gli autori di cui si occupa, dimenticando che mitsingen ist verboten, come si leggeva e talvolta ancora si legge nelle sale di concerto dei paesi di lingua tedesca per ammonire il pubblico a non aggiungere la propria voce a quella dei cantanti: «Il 4 di giugno del 2015 è giunto in tutte le librerie d’Italia un volume della Piccola Biblioteca Adelphi, intitolato “Se mi vede Cecchi sono fritto”. Corrispondenze e scritti 1962-1973. In copertina, al posto che di solito compete agli autori, si leggono i nomi di Carlo Emilio Gadda e di Goffredo Parise. Non occorre dire che Gadda e Parise non hanno scritto alcun libro a quattro mani. […] Il conglomerato che, al netto dell’indice dei nomi, consta di 323 pagine (da p. 13 a 336), si deve a Domenico Scarpa. […] Posto che le 15 lettere che Gadda scrisse a Parise nei sette mesi che vanno dal 29 ottobre 1962 al 31 maggio 1963 occupano 34 pagine e un quarto mentre per le tre di Parise a Gadda ne bastano 4 e tre quarti, cosa occupa le 284 residue? […] Cinque ospitano una Tavola delle abbreviazioni bibliografiche (pp. 272-276). 21 una Nota ai testi (pp. 279-99). Togliamo anche queste. Ne avremo ancora 189. Bene, queste pagine (su 323, ricordiamolo, 58,5%) ospitano il commento (che è altra cosa dal saggio) di Domenico Scarpa alle 57 pagine di Gadda e Parise. Perché darsi a questi conteggi grulli? Perché amo i commenti succinti. […] Il troppo spazio di regola non giova allo scoliaste. Per esempio può indurlo a un peccatuccio, poco scusabile anche se veniale, come quello del mitsingen. […] Ora si sa da tempo che mitsingen ist verboten¸ e non solo nelle sale da concerto» (pp. 70-71).
Questi, e altri che si potrebbero citare, sono come detto gli exempla negativi. Che tradotto in lingua più schietta vuol dire: se volete fare un libro come si deve, non fate così. Ma tra gli Improvvisi ci sono anche pezzi pieni non di ironia e sfottò, bensì di ammirazione e persino di affetto. Ammirazione per esempio per Luigi Meneghello (pp. 10-11), qui nelle vesti di traduttore dall’inglese, che si permette di interpolare nella sua traduzione di un libro sulla pena di morte (per impiccagione) in Inghilterra un rinvio ai versi del Belli dedicati a quella medesima pratica nella Roma papalina (Belli è insieme a Gadda è uno dei numi tutelari di Corazzol). E ammirazione genuina anche per Daniele Ponchiroli e le sue annotazioni diaristiche:
“Ponchiroli, lo sanno tutti ma è meglio ricordarlo, per oltre vent’anni ha lavorato alla Einaudi come redattore. La cifra delle sue note? Non introspezione. No moti del cuore. Solo rendiconti di quel che sente e vede.
[…] E come scrive! In velocità, di tocco. Una prosa che, fosse pittura o cinema, verrebbe da sistemarla a metà tra De Pisis e Buster Keaton, impastata com’è di impassibilità clinica, affetto e ironia. Una gemma.
Grazie alla grazia di Ponchiroli la redazione di via Biancamano, quella famosa ciurma mille volte descritta, […] vi risulterà allegra, luminosa. […] Miracolosa nella scrittura di Ponchiroli la capacità di ottenere effetti comici senza concedere un millimetro al dileggio o allo sberleffo. Il suo diario è uscito lo scorso aprile. Ad altri il recensirlo. A me non riesce altro che di raccomandarvelo con tutto il cuore” (pp. 81-82).
Non dico nulla dei sentimenti per Bruno Trentin, nel testo più lungo del libro, dedicato ai suoi diari. Ma, tra i testi più brevi, quelli di mia competenza stasera, il caso più toccante è il ricordo-ritratto di Ferruccio Vendramini, figura esemplare di storico che non solo era animato dall’ossessione-missione di riscattare la vicenda di persone umili che non dovevano essere dimenticate (genti meccaniche e di piccolo affare, come avrebbe detto Manzoni), ma che rivendicava l’energia del “vissuto” e il ruolo della memoria, anche personale, nella ricerca storica. In questo scritto si trovano alcune tra le pagine più commosse di tutto il libro di Corazzol. Ne vorrei leggere, prima di concludere, due estratti. Il primo è questo:
“Come si sa, gli storici hanno un debole per tutto ciò che risulti o sembri essere stato influente. Niente di meglio poi se si tratti di soggetti (ospedali, associazioni, enti, banche, aziende) che godono di buona salute e bei bilanci.
Salvo che nella vita di una città, non diversamente da quella di una persona, non è tutta una ghirlanda di successi. Noi vecchi potremmo fare elenchi assai lunghi di iniziative, gruppi politici, case editrici, riviste, società sportive, cori, gallerie d’arte, fabbriche, cineforum, circoli ricreativi, pratiche di pietà che, non importa se nati da iniziative locali o per suggestioni venute da fuori, sono spariti, quali di botto, talaltro dopo un breve fumigare. Una storia sociale delle piccole città attenta solo ai successi è una storia buona per le domeniche della vita, quelle con discorso in renga, bandedàffori, mostaccioli e ciupaciù. Le peggio.
Siamo sicuri che per capire come mai siamo quel che siamo, non serva anche un inventario dei fallimenti? L’invito di Vendramini a ragionarci su al solito è obliquo. Consiste nel proporre le vicende di un paio di comitati dalla vita effimera che non lasciarono dietro di sé nient’altro che pochi verbali e qualche rimpianto” (p. 142).
E questo il secondo:
«I moderni Creonti, a parte casi speciali, non negano la sepoltura ai loro oppositori. Non è perché si siano ingentiliti. È solo che sanno bene quanto sia smisurata la potenza dell’oblio. Per questo a quasi tutti concedono spazio (millimetrico) nei depositi, siano di carta o in silicio. Alla legge di natura che prevede lo sprofondare degli eventi di ogni vita, la sua, la nostra, Vendramini da qualche anno in qua in opponeva con tutte le sue forze, inconsolabilmente. La sua ribellione, lieve nei toni ma innegoziabile, così accorante nella sua assoluta trasparenza, faceva da controcanto a ogni chiacchierata, da quelle ordinarie alle più gravi. Di qui il tono particolare di alcuni scritti, a mezzo tra l’ossessione e l’opera di misericordia, dichiaratamente intesi come erano a gettare un po’ di luce su “persone che non possono essere dimenticate”. Tanto meglio se appartenenti alla classe che l’ordine (?) sociale d’ogni tempo considera l’ultima» (pp. 145-146).
Il libro di Corazzol è, tra le altre cose, anche un florilegio di sentenze buone per molti usi. Una è quella a cui ho cercato di obbedire in questa occasione (p. 17): “Un buon recensore, dicono, deve fornire estratti significativi del libro di cui si occupa”. Ma ce n’è un’altra che viene in taglio per concludere. È quella che si legge a pagina 71 e che si è già avuto modo di citare: “Il troppo spazio di regola non si addice allo scoliaste”. Meglio, molto meglio, la stringatezza. E quindi lo scoliaste che vi parla si ferma qui.
Nota. Discorso tenuto all’incontro su Improvvisi, di Gigi Corazzol, Caffè Letterario-Enaip, Feltre, 8 gennaio 2025.
[1] L’Ape latina di Giuseppe Fumagalli (primaed. Hoepli 1919) è una celebre e molte volte ristampata raccolta di proverbi, frasi e locuzioni latine tradotte e annotate. Ndr.
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