
Un giovane ricercatore in Environmental Humanities spiega come l’esistenza del MOSE (il sistema di dighe mobili costruito per proteggere Venezia e la laguna dall’“acqua alta”) disciplini la relazione tra città, laguna e mare, e strutturi rapporti sociali, le gerarchie di interessi e il modo di immaginare il futuro. Una diga, destinata a essere un giorno abbandonata, impone un paradigma di salvaguardia di un patrimonio che impedisce agli abitanti di pensare alternative.
1. I protocolli del MOSE
Un ingegnere all’Arsenale Nord mi dice che lavorare con il MOSE significa prendere decisioni. Chi lavora al MOSE usa una serie di protocolli per identificare e organizzare gli eventi di acqua alta[1]. A partire da oltre una settimana in anticipo su ogni evento, questi protocolli regolano il modo in cui i tecnici dovranno reagire alle condizioni meteorologiche. Da essi scaturisce la decisione di attivare o meno il MOSE. Se si decide di struccare il botón, di premere il pulsante, il protocollo lascia la possibilità di una serrata comunicazione tra le squadre di previsione meteorologica e le squadre di attivazione, che decidono quando attivarsi, quali barriere devono essere alzate e per quanto tempo devono rimanere alzate. A causa di questi protocolli, l’ambito di lavoro del MOSE è permeato da un “conto alla rovescia”: un’anticipazione costante degli eventi all’orizzonte.
Un evento viene previsto con un anticipo di dieci giorni rispetto al momento in cui si manifesterà a Venezia. Le squadre dell’Arsenale Nord esaminano i loro modelli e identificano i periodi di avvicinamento in cui l’acqua potrebbe salire oltre i 100 cm sopra il livello locale del mare. Attualmente, il MOSE viene attivato per qualsiasi evento superiore a 110 cm, e teoricamente non al di sotto di questa soglia (anche se ci sono già delle eccezioni). Tuttavia, l’incertezza meteorologica ha portato gli ingegneri a inserire un margine di errore di 10 cm in tutte le previsioni. Cioè, se la previsione è di 100 cm ma poi i venti cambiano all’ultimo minuto e l’acqua raggiunge i 110 cm a Venezia, il sistema MOSE sarà comunque pronto. Ogni singolo periodo di acqua alta al di sopra della quota stabilita dallo Stato riceve un numero: il primo della stagione sarà 001, il secondo 002 e così via. In questo modo, i protocolli di previsione prendono un fenomeno fluido – il ciclo delle maree guidato dalle condizioni meteorologiche – e isolano alcuni periodi in cui è particolarmente significativo.
La suddivisione del tempo lineare in eventi acquatici crea un evento politico equivalente ma distinto. A un certo punto, molte realtà distinte vengono riunite in un’azione coordinata intorno a questo periodo di alta marea. Al T-48, ovvero quarantotto ore prima dell’evento, i tecnici verificano i dati meteorologici con il Centro Marea ed eseguono una simulazione su modello per decidere i tempi ideali per alzare e abbassare le barriere. Informano la Capitaneria di Porto che le bocche saranno chiuse. Si coordinano anche con il porto di Chioggia per avvisare i pescatori di rientrare prima della chiusura e contattano via radio i servizi di emergenza. “È una comunicazione costante,” mi dice un operatore coinvolto in questo processo. Al T-9, nove ore dall’evento, le squadre del MOSE dislocate alle bocche di porto ricevono la conferma finale che eseguiranno il processo di attivazione. Molti di loro sono dipendenti “normali” ma poi, come descrive una sindacalista, “entrano in una cabina telefonica per cambiarsi, indossano un nuovo costume” quando sono chiamati ad alzare le barriere. Si sistemano ed eseguono test per assicurarsi che il sistema funzioni.
Al T-9, le previsioni sono sempre più certe ma, in effetti, i falsi allarmi sono stati piuttosto comuni nei primi anni di funzionamento del sistema. Una volta mi è stato mostrato un rapporto di venti eventi di acqua alta durante la stagione 2023-2024, e circa la metà di essi erano evidenziati in rosso per falso allarme. In quel caso, il team di previsione si confronta con il triangolo decisionale (commissario del Consorzio Venezia Nuova [CVN], sovrintendente della città e commissario del MOSE) e poi dice alle squadre di andare a casa. Questo è frustrante per i lavoratori che si sono preparati per l’evento. Uno di loro sorride, ricordando “le parolacce, le maledizioni tra le squadre” quando è stato dichiarato un falso allarme al T-2. Il periodo che precede l’evento di attivazione mette in allarme e crea una certa tensione tra coloro che leggono il meteo e coloro che gestiscono il sistema.
Infine, al T-0, c’è una decisione finale coordinata tra i tre commissari, le squadre di previsione e la sala di controllo centrale di Lido-Treporti per attivare il MOSE. “Quando si è sicura che è l’ora giusta, la quota giusta, per sollevare”, si invia un segnale a tutte e tre le squadre di attivazione per alzare le barriere, mi dice una tecnica. I pannelli gialli si alzano nel giro di trenta-quaranta minuti, e poi le squadre continuano a monitorare la situazione fisica: il vento nell’Adriatico, i livelli dell’acqua nella laguna. “Anche durante il MOSE – mi dice –, quando il MOSE è chiuso, si comunica ogni ora, dicendo che guarda ancora ancora ancora ancora, e poi tra un’ora noi tiriamo giù, poi vi diciamo che tutte le paratoie sono zavorrate al fondo, e poi ricomincia il flusso attraverso le bocche”.
Da questi protocolli di conto alla rovescia traggo due insegnamenti. Primo: il sistema si basa fondamentalmente su decisioni umane. Chiedo a un ingegnere se il sistema possa mai essere automatizzato, e lui mi risponde di no. È stato provato altrove, ma c’era sempre il timore che si chiudesse su una nave o altro. Il MOSE non funzionerà mai “senza la testa d’uomo”, mi dice. I protocolli di conto alla rovescia sono fatti per essere flessibili, non algoritmici. Richiedono un’intensa conoscenza non solo di come leggere i modelli meteorologici, ma anche di come negoziare tra i diversi attori umani locali che dipendono dal passaggio tra la laguna e il mare. Inoltre, tutti coloro che lavorano al MOSE sono ben consapevoli che l’intero sistema lagunare soffre se le barriere vengono alzate troppo a lungo.
In secondo luogo, i protocolli di conto alla rovescia concentrano le risorse su eventi puntuali e circoscritti. Si tratta di una disposizione decisiva per la vita quotidiana a Venezia: operai specializzati sono posizionati in modo da impedire con precisione e accuratezza che la laguna si innalzi oltre i 110 cm sopra il dato locale, anche con il tempo più burrascoso. Tuttavia, questa focalizzazione temporale trasmette un particolare rapporto di difesa dall’acqua. L’uso di tecnologie di previsione e di scenario per identificare, prepararsi e organizzarsi intorno a un evento puntuale abitua gli operatori del MOSE, e i residenti che ricevono i loro avvisi via SMS, a vedere l’alta marea come una minaccia eventuale che deve essere anticipata e disinnescata di routine. In questo senso, non è molto diverso da come molte narrazioni inquadrano il cambiamento climatico come una “catastrofe a venire”[2]. In effetti, le forze armate degli Stati di tutto il mondo sono molto concentrate sul cambiamento climatico e lavorano per anticipare gli eventi che potrebbero minacciare lo status quo della società. Anche gli attivisti per il clima spesso inquadrano il futuro come una sorta di conto alla rovescia verso un evento apocalittico.
I protocolli di conto alla rovescia del MOSE prestano troppa poca attenzione agli altri ritmi del tempo implicati nel più ampio sistema lagunare. Per esempio, le barene accumulano la maggior parte dei loro nuovi sedimenti durante i periodi di mareggiata, e quindi gli eventi di chiusura limitano la loro capacità di tenere il passo con l’aumento del livello del mare[3]. I protocolli riducono invece i cambiamenti di marea a lungo termine a una serie di eventi quantificati e quantificabili che possono essere gestiti a beneficio di alcuni attori sociali secondo una logica neo-insulare. Al momento dell’evento-attivazione, il MOSE stabilisce infatti il tempo (cioè orario, meteo e ritmo) per tutte le altre realtà lagunari.
Osservo dunque che il MOSE non si rivolge tanto ai suoi partner intra-lagunari, quanto piuttosto li scavalca, in parte perché i protocolli di conto alla rovescia sono per lo più impostati per vedere il quadro a breve termine piuttosto che a lungo termine. Riorientare le operazioni su un orizzonte temporale più lungo, come alcuni operatori del MOSE già cercano di fare, potrebbe aumentare le possibilità di rispondere all’acqua alta con buone relazioni con la laguna.
Intermezzo. Due testimonianze
Dirigente sindacale. Via Ca’ Marcello, Mestre. Dicembre 2023.
“Quello che il MOSE rappresenta per noi è un problema per le attività portuali. A Marghera ci sono molte aziende che ricevono i loro materiali dal mare. Non solo petrolio, ma anche grano per i mulini, sabbia per la lavorazione del vetro, ecc. Quando il MOSE sale, come in quella situazione eccezionale di ottobre, allora gli imprenditori aspettano che le loro merci arrivino. E quando ci sono finestre aperte per far passare i trafficidal Canale dei Petroli, le navi da crociera vanno per prime (trasportano un ‘carico’ più rischioso delle altre) e gli imprenditori restano in attesa. Se ci vuole troppo tempo e se continua così, allora si dice: chiudiamo questa fabbrica e la apriamo altrove. Ma non c’è solo il MOSE, i problemi più grandi sono il cambiamento climatico e l’innalzamento del livello del mare…”.
Ingegnere del sistema MOSE. Arsenale Nord, Venezia. Febbraio 2024.
“Posso dirti una cosa personale che ho condiviso anche con [gli altri ingegneri], ogni tanto parliamo di queste cose qua: che gli ultimi due anni abbiamo percepito questo cambiamento proprio fisicamente, no? E non per aver letto sulla carta analisi di chissà chi, fatte chissà dove – è evidente che le quote si stanno alzando. Magari sono degli anni straordinari, non si sa se continuerà in maniera così incrementale oppure no, però negli ultimi due anni ci siamo accorti che… te ne accorgi proprio fisicamente, sulle analisi è un po’ difficile perché cambia un punto decimale, non te ne accorgi col passare del tempo… Abbiamo notato questo impatto… lo vedi, lo si vede, a occhio nudo, ecco, senza microscopio elettronico”.
Nota. Come ricercatore, devo aggiungere che è da tempo che gli scienziati indipendenti sono arrivati a un consenso all’impatto delle barriere mobili sul sistema lagunare. Per esempio: “La variazione locale delle velocità residue e istantanee della corrente è una conseguenza diretta delle nuove strutture alle bocche di porto e delle loro nuove profondità grazie al progetto MOSE”, scrivono Michol Ghezzo e colleghi (Michol Ghezzo, Stefano Guerzoni, Andrea Cucco, Georg Umgiesser, Changes in Venice Lagoon Dynamics Due to Construction of Mobile Barriers, in “Coastal Engineering”, 57 (7), 2010, pp. 694-708). Le maree più forti portano a una “allarmante accelerazione dell’erosione” e di conseguenza la laguna si sta “appiattendo”, riferisce un team guidato da Alessandro Sarretta nel 2009 (A. Sarretta, S. Pillon, E. Molinaroli, S. Guerzoni, G. Fontolan, Sediment Budget in the Lagoon of Venice, Italy, in “Continental Shelf Research”, 30 (8), 2010, pp. 934-949). Utilizzando rilievi del fondale lagunare risalenti al 1930, mostrano che la laguna sta diventando progressivamente più profonda e quindi “ad alta energia e più aperta”. Sorprende però che un ingegnere affermi che si riesce a osservare non solo l’impatto del MOSE ma anche l’innalzamento del mare “a occhio nudo” nel giro di pochi anni. Probabilmente vuol dire un’accelerazione del cambiamento lagunare, con tutte le conseguenze che nota il sindacalista.

2. Il MOSE come patrimonio
Al termine della conversazione con ogni operatore del MOSE, pongo una domanda aperta: quali altre preoccupazioni Lei ha per il futuro della laguna? Quasi all’unanimità rispondono che il problema principale di Venezia sarà l’innalzamento del livello del mare. Citano i progetti proposti: muri, idrovore, il porto offshore. Ma forse perché chiedo in termini vaghi, non ricevo mai una visione chiara di ciò che potrebbe succedere alla fine della storia del MOSE, lasciandomi l’impressione che il suo destino non sia ancora preso in considerazione. Sembra che il progetto di protezione di Venezia dall’acqua alta sia oggi in atto con la speranza che vada avanti abbastanza a lungo da non costringere nessuno di quelli che ci stanno lavorando a immaginare cosa succederà dopo. Nel frattempo, tutta l’attenzione è rivolta a far funzionare il MOSE a pieno regime.
In altri momenti delle nostre chiacchierate, però, sento che i lavoratori immaginano cosa sarebbe successo al MOSE se non ci fosse stato alcuno sforzo per mantenerlo in funzione. Un ingegnere mi fa notare che se l’Autorità per la laguna continua a ritardare, “dopo l’azione di salvaguardia. a un certo punto sarà un MOSE abbandonato, sotto acqua, perché nessuno saprà più alzarlo”. Il suo tono cupo mi evoca un’immagine del tutto opposta a quella dei luccicanti materiali promozionali del MOSE: penso a edifici di cemento fatiscenti e a pannelli gialli sbiaditi che vengono gradualmente coperti dai sedimenti lagunari, in attesa di essere ritrovati da futuri archeologi. Era questo che sarebbe successo se l’intero progetto di “salvare Venezia” si fosse fermato? Prima o poi, penso, sicuramente gli sforzi si affievoliranno e lasceranno il MOSE al mare.
Come un’infrastruttura che protegge altri pezzi di infrastruttura, il MOSE mette in atto una pratica di conservazione, una relazione di protezione verso il centro storico e le sue aree periferiche che restringe altre relazioni possibili. “La conservazione è l’opposto della trasformazione”, scrivono gli architetti Sevince Bayrak e Oral Göktas. “Il desiderio principale alla base dell’atto di conservazione è riportare l’Eroe ai suoi giorni di gloria, rispettare l’originale e l’autentico e non aggiungervi mai nulla”[4]. Forse Venezia è l’oggetto prezioso di una storia che ha come eroe il MOSE. L’unico modo per sostenere questa disposizione eroica è mantenere a tutti i costi il sistema di barriere, “recuperando questo momento di completezza e unità” nell’istante del suo completamento, altrimenti tutto è perduto, scrive DeSilvey[5]. Gli ingegneri con cui parlo lasciano intendere che se le barriere contro le mareggiate cadono in rovina, lo stesso vale per Venezia.
La città di Venezia è un sito del patrimonio mondiale dell’UNESCO, ma fattori quali l’eccessivo turismo, lo spopolamento e l’innalzamento del livello del mare hanno spinto l’organizzazione a considerare la possibilità di rimuoverla dalla lista, il che avrebbe ampie implicazioni per il suo riconoscimento come un prezioso complesso materiale meritevole di finanziamenti per la conservazione. In un editoriale della rivista Fortune Italia, Giorgia Meloni ha fatto intendere che “proteggere Venezia” attraverso il MOSE è stata una parte fondamentale di come “siamo riusciti a sventare” la “manovra anti-italiana”. Conclude con nazionalismo: “Senza veneziani non esiste Venezia. E senza Venezia non esiste l’Italia”[6]. Il MOSE è diventato un’ancora per il patrimonio nazionale. Meloni stabilisce l’identità di una popolazione unita contro il degrado e l’infiltrazione di forze esterne, tutto in linea con il conservatorismo che avviene a livello nazionale. Venezia come patrimonio conservato è iscritta come bene statale che si può contemplare da lontano ma non toccare o trasformare.
Pur essendo un nuovo arrivato nel complesso materiale della laguna, il MOSE stesso è un pezzo di patrimonio che continuerà a servire come un’ancora mnemonica per la comunità veneziana anche in futuro. Cosa rappresenterà esattamente è ancora oggetto di discussione e può dipendere dalla scala temporale che si considera. In un’ottica ventennale, il MOSE potrebbe essere ancora parte del meccanismo di protezione della città. La mia generazione potrebbe trovarsi invece a dover mantenere e a curare la storia dei grandi interventi tecnologici avviati negli anni Ottanta, e quindi questa infrastruttura potrebbe apparire come parte di un tessuto urbano che non si è mai adattato all’ambiente, ma vi resiste sempre.
Su una scala temporale di cento anni, tuttavia, la storia eroica del MOSE si interrompe. Poiché non si può continuare a chiudere la laguna a tutte le alte maree senza cambiare l’intero paesaggio acquatico regionale, le esigenze di adattamento cambiano[7]. Il MOSE diventa “non più un eroe, ma una struttura ordinaria in attesa di essere riscoperta”, scrivono Bayrak e Göktas[8]. È qui che le pratiche del patrimonio potrebbero dover cambiare. Se, tuttavia, prevale il paradigma della conservazione, il MOSE potrebbe essere semplicemente abbandonato o demolito in favore del prossimo progetto di stabilizzazione. Pochi vogliono vedere Venezia continuamente allagata: come altri grandi siti patrimonio dell’umanità ricchi di significato, “il suo disfacimento minaccia di disfare anche le nostre identità”[9]. Gli ingegneri che immaginano un MOSE corroso e non funzionante richiamano l’idea di fallimento, sconfitta e perdita. Ma anche questo immaginario è bloccato all’interno di un insieme ristretto di relazioni nell’ecologia morale delle infrastrutture. Come immaginare allora il MOSE in modo diverso, né come eroe nei suoi giorni di gloria né come eroe fallito?
Voglio suggerire che le pratiche di patrimonializzazione che si intrecciano con la trasformazione – in particolare con i processi di entropia e decadimento – possono riorientare il MOSE verso relazioni lagunari basate sulla cura. Pianificare adesso la fine della vita del MOSE apre la possibilità di creare disposizioni materiali che vadano oltre l’aggrapparsi a un sistema di conservazione che richiede sforzi e risorse estreme. Guardando alla scala millenaria di Venezia, il paradigma della conservazione si rivela come una memoria altamente selettiva dell’abitato passato, che solo alla fine del XIX secolo si è concentrata sulla conservazione degli artefatti e sul ripristino delle strutture del passato in uno stato congelato. Una pratica trasformativa del patrimonio, sostiene DeSilvey, è orientata verso l’orizzonte, chiedendosi che cosa il patrimonio materiale possa davvero fare per il futuro[10].
Se il MOSE è un sito di potenziale rielaborazione delle future relazioni lagunari secondo pratiche di trasformazione del patrimonio, allora noi residenti lagunari possiamo imparare da altri casi e narrazioni per prevedere ciò che del suo attuale stato storico può essere utile in futuro. In effetti, il progetto Amphibia di tre studenti dello IUAV tenta già di farlo attraverso una lente utopica. Imparando dagli ecologisti e dagli attivisti ambientali, suggeriscono che il modo migliore per rielaborare il MOSE è quello di seppellirlo: gli operai della laguna “posero le macerie sul fondale marino per rendere meno profonde le bocche di porto, per coprire il loro rigido e obsoleto sistema di protezione”, dice il narratore[11]. In termini di patrimonio materiale, la loro visione rappresenta un notevole passo in avanti rispetto al cupo futuro che gli operatori del MOSE avevano lasciato intendere. Amphibia mostra una comunità che si allontana da un progetto traumatico, cercando di guarire e andare avanti. Il progetto viene seppellito, mettendolo simbolicamente a riposo e contribuendo al contempo a spostare l’ecosistema lagunare verso uno stato deindustrializzato e più estuariale. Nelle parole di uno dei suoi creatori, questa soluzioneincoraggerebbe i residenti a “riscoprire le particolari modalità di vita e di lavoro della laguna”[12].
Qualsiasi movimento che si allontani dalla mentalità della conservazione richiede che i soggetti interessati si impegnino nella manutenzione di legami con qualcosa che sta cambiando. Non sarà dunque utile continuare a fare affidamento sul MOSE. Bisogna formulare altri protocolli che prevedano altri modi di vivere con le acque.
L’attuale dipendenza di Venezia dal MOSE significa che il destino di un’intera città sembra dipendere dal suo eroico funzionamento. Imparando invece da altri luoghi e dalle teorie sulle pratiche trasformative del patrimonio, la città e la laguna non sarebbero più oggetti statici di contemplazione, e i residenti non dovrebbero più affidarsi interamente al MOSE e al paradigma politico a esso associato per continuare a vivere in una regione costiera. Le comunità resistenti alle pratiche di “lasciar perdere” possono sentirsi minacciate perché non hanno altri modi chiari per commemorare il loro patrimonio materiale e trasmettere l’identità collettiva ai loro discendenti.
In un ambiente costruito privo di strutture eroiche, gli architetti Jane E. Jacobs e Stephen Cairns suggeriscono “architetture informali e incrementali, in cui alle persone viene concessa la libertà di rispondere al cambiamento e alla rovina alle loro condizioni, senza alcuna prescrizione”[13]. La chiave è che agli abitanti venga concesso il potere di trasformare; in spazi angusti è difficile vedere come i processi di decadimento possano “abbattere l’integrità di una sostanza… per rendere i suoi componenti disponibili per l’iscrizione in altri progetti”[14]. Il MOSE presenta un progetto che ha bisogno di un “lieto fine”, in modo che le sue componenti fisiche o narrative diventino parte di questi altri progetti che favoriranno le buone relazioni con il territorio. Come riformularlo attraverso migliori pratiche patrimoniali è una questione intricata ma non insormontabile per la generazione attuale, e avrà effetti a catena per i secoli a venire.

Nota. Holden Turner è ricercatore, attivista e scrittore con una laurea magistrale in Environmental Humanities presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dividendosi tra l’Italia e gli Stati Uniti orientali, cerca di capire le narrazioni contemporanee sull’innalzamento del livello del mare. Questo testo è il frutto delle ricerche svolte per la tesi di laurea magistrale sul futuro del MOSE e della laguna di Venezia (discussa nell’estate 2024, disponibile presso l’Università Ca’ Foscari http://dspace.unive.it/handle/10579/27327 e il sito personale dell’autore https://holdenturner.blogspot.com/p/essays-and-art.html); le interviste, da cui sono tratti alcuni brani in forma anonima, hanno avuto luogo nell’inverno 2023-2024.
[1] Ringrazio gli ingegneri e i tecnici che mi hanno permesso di partecipare alle visite alla Sala di Controllo e mi hanno chiarito alcuni elementi dei protocolli.
[2] Isabelle Stengers, Introductory Notes on an Ecology of Practices, in “Cultural Studies Review”, 11 (1), 2005, pp. 183-196.
[3] Davide Tognin, Andrea D’Alpaos, Marco Marani, Luca Carniello Marsh Resilience to Sea-Level Rise Reduced by Storm-Surge Barriers in the Venice Lagoon, in “Nature Geoscience”, 14 (12), 2021, pp. 906-911.
[4] Sevince Bayrak, Oral Göktas, Ghost Stories: The Carrier Bag Theory of Architecture, ListLab, Barcellona 2023, p. 42.
[5] Caitlin DeSilvey, Curated Decay: Heritage Beyond Saving, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2017, p. 13.
[6] MOSE Ingegno Italiano, “Fortune Italia”, numero monografico, novembre 2023, p. 13; scaricabile online (dopo registrazione) presso il sito della Fondazione Venezia Capitale Mondiale della Sostenibilità: https://vsf.foundation/download-pubblicazione/.
[7] Georg Umgiesser, The Impact of Operating the Mobile Barriers in Venice (MOSE) under Climate Change, in “Journal for Nature Conservation”, 54, 2020.
[8] Bayrak, Göktas, Ghost Stories, p. 22.
[9] DeSilvey, Curated Decay, p. 13.
[10] Ivi, p. 178.
[11] Nathan Fredrick, Flore Guichot, Francesco Lombardi, Amphibia: A Utopia for Venice, Post-Masters, IUAV, Venezia 2021, p. 113; consultabile online: https://issuu.com/emu_amphibia/docs/amphibia (si veda anche https://www.youtube.com/watch?v=6-NVoggmmz4).
[12] Comunicazione personale con Francesco Lombardi.
[13] Stephen Cairns, Jane M. Jacobs, Buildings Must Die: A Perverse View of Architecture, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2014, p. 187.
[14] DeSilvey, Curated Decay, p. 11.
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