Una studiosa di storia economica, delle reti mercantili globali in età moderna e di stereotipi antiebraici nel pensiero economico occidentale, visita una mostra d’arte contemporanea ai tempi della distruzione di Gaza, trovando tra gli oggetti esposti libri importanti nella sua ricerca. Con una nota della redazione.
A Venezia c’è ancora chi si ricorda di un certo andirivieni in una calle laterale tra San Cassiano e San Stae. Calle de Ca’ Corner de la Regina non è un’arteria di grande passaggio ma a certe ore del giorno si riempiva di persone umili che camminavano frettolose. Dal 1834 al 1969, infatti, il sontuoso palazzo fatto costruire dai discendenti di Caterina Cornaro, nota come la Regina di Cipro, ospitò il banco dei pegni gestito dal governo municipale, cui fu dato il nome di Monte di Pietà.
Un nome con una lunga storia alle spalle. I primi monti di pietà furono istituiti a metà del Quattrocento dai frati francescani con un duplice scopo: offrire prestiti di modeste entità a tassi d’interesse ridotti (non oltre il 5%) e in tal modo, si diceva, liberare gli strati più poveri della popolazione dalle vessazioni dell’usura ebraica. La loro funzione di microcredito era dunque inscindibile dalla persecuzione antiebraica.
A Venezia, prima dell’Ottocento, non era mai esisto un monte di pietà. Nel tardo medioevo, i francescani avevano aperto i loro banchi di pegno in molte città dell’entroterra veneto, comprese Padova, Vicenza, Verona, Castelfranco Veneto e Montagnana, mentre la Repubblica non diede mai loro il permesso di installarsi nella “Dominante”. Sia prima che dopo la creazione a Venezia, nel 1516, del primo quartiere ebraico denominato “ghetto”, la Repubblica volle tenere a bada i predicatori francescani lasciando la gestione del prestito su pegno agli ebrei e ai rivenditori di vino della città.
Monte di Pietà è ora anche il titolo di una mostra immersiva dell’artista svizzero Christoph Büchel ospitata a Ca’ Corner della Regina fino al 24 novembre 2024, in coincidenza con la 60a Biennale d’Arte.[1] Farne una descrizione concisa non è facile perché Büchel ha adottato una strategia critica mimetica, ovvero accumula oggetti fino all’inverosimile con l’obiettivo di denunciare gli eccessi dell’accumulazione capitalista e del degrado da essa causato. Ma siccome l’installazione si fonda su un principio associativo più che analitico, per decodificare gli accostamenti proposti, o almeno sussurrati, occorre dare conto degli elementi che li sottendono. Insomma, un riassunto è necessario per provare a cogliere quello che Büchel non dice ma sembra voler fare intuire.
Dentro e fuori dalla storia
Sia gli interni che l’esterno di Ca’ Corner della Regina sono stati ampiamente modificati. Le alterazioni volute da Büchel si snodano lungo due binari paralleli: da un lato vogliono ricreare, quasi filologicamente, le fattezze dello storico banco dei pegni nella sua sede originale; dall’altro fanno assomigliare il palazzo a una qualsiasi delle mille vetrine di negozi dell’usato, agenzie delle scommesse, cambiavalute, “compra oro” e sale da gioco in cui si incappa ovunque, facendolo così uscire dal proprio contesto storico. Questo doppio binario traspare già dalla facciata, visibile solo da un’imbarcazione o dall’altro lato del Canal Grande. Uno striscione riporta a lettere maiuscole: “VENDESI”. Alcune finestre sono tappezzate da pannelli che dicono “Fuori tutto / Liquidazione totale”. I colori sgargianti e la grafica di bassa lega richiamano quelli delle insegne da cui siamo bombardati in tutte le città del mondo. D’altro canto l’intitolazione sul timpano della porta d’acqua ripristina l’edificio alla sua funzione precedente: “Monte di pietà”. Il medesimo sdoppiamento si ripete all’interno del palazzo, che conserva gli affreschi e le decorazioni marmoree originali ma è stato spogliato il più possibile della sua eleganza per fare dello squallore l’estetica dominante. L’infrastruttura del banco dei pegni otto-novecentesco è stata ricostruita sulla base di fonti d’archivio, ma l’accostamento di oggetti di ogni epoca e di ogni provenienza sottrae il luogo al proprio passato e lo trasforma in un contenitore sospeso fuori dal tempo.
L’ingresso e il percorso
L’entrata dell’esposizione, dalla porta laterale del palazzo sulla calle omonima, è quella ben nota a chi in anni recenti si è recato alla Fondazione Prada di Venezia per altri eventi espositivi. Ma gli arredi della biglietteria rendono la stanza a mala pena riconoscibile per farla sembrare il tetro negozio di un compratore di gioielli usati. Così vuole la natura immersiva della mostra. A chi supera lo straniamento iniziale e acquista il biglietto (i prezzi non sono modici, tanto per rimanere in tema), al posto della solita audioguida viene consegnato un opuscolo malridotto che, dal titolo, si presenta come un “bollettino delle aste giudiziarie” emesso dal Tribunale di Venezia.
L’ingresso vero e proprio, una porta più in là, è buio e angusto. Ci si ritrova circondati da mucchi di vestiti logori e oggetti di ogni genere coperti di polvere: alcuni appoggiati su mensole di metallo, altri imballati in sacchi della spazzatura, altri ancora abbandonati sul pavimento. Impossibile farne un elenco completo – si va dalla porta sventrata di un’auto della polizia alle provette di un laboratorio medico. Non ci sono didascalie come di solito in una mostra, né pannelli esplicativi. Manca qualsiasi indicazione di percorso, a eccezion fatta della bacheca in cui sono esposte foto e documenti d’epoca riguardanti il monte di pietà ottocentesco (senza alcuna menzione, però, al legame tra quel nome e gli istituti francescani medievali).
Mi guardo intorno per cercare di cogliere le reazioni dei visitatori, che non sono molti. Alcuni camminano più velocemente di altri; i più sono visibilmente perplessi. A giudicare dai bisbigli e dalle espressioni del volto che riesco a intercettare, lo sconcerto è diffuso. Man mano che procedo mi rendo conto che la mostra si snoda in modo vagamente tematico sui tre piani: il piano terra è il più miscellaneo, cosa che amplifica lo sbigottimento del primo impatto; il mezzanino è dedicato al gioco d’azzardo e alla mercificazione di Venezia (lì i soffitti bassi accentuano il senso di claustrofobia); il piano nobile affianca una ricostruzione in parte realistica e in parte parodica degli sportelli del monte di pietà otto-novecentesco a una raccolta solo in apparenza caotica delle cose più improbabili.
L’eccesso in mostra
Si incappa in tutto e di più. C’è un pezzo raro in prestito dagli Uffizi (un ritratto di Caterina Cornaro di mano di Tiziano) accanto a un appendino di plastica e un asciugacapelli. C’è una valigia a cassettini estraibili riempiti di diamanti sintetici (l’unica opera d’arte realizzata da Büchel stesso). Ci sono antiche presse metalliche usate dalla Chiesa cattolica per marchiare le ostie secondo una tecnica che ricorda quella adoperata per le monete sonanti. C’è un kit di evacuazione distribuito dall’azienda Lehman Brothers ai dipendenti. Ci sono i libri di conti del Monte di Pietà di Napoli, alcuni posati su lavatrici a gettoni e circondati da cianfrusaglie. C’è la regalia della squadra di calcio locale e una foto dell’attuale sindaco di Venezia, che si trova sotto inchiesta giudiziaria. Ci sono prove dei risarcimenti pagati agli ex proprietari di schiavi ad Haiti e le catene poste ai piedi dei somali dai coloni italiani. C’è un frigorifero self-service riempito di bevande energetiche che tengono svegli programmatori e utenti di videogiochi che a loro volta creano dipendenza. C’è un pezzo di stoffa con il logo di Prada steso sugli scaffali vuoti di una mensa per i poveri e una rivista patinata con Miuccia Prada in copertina accanto a un posacenere pieno di mozziconi di sigaretta sul banco di una guardia di sicurezza notturna. C’è un manifesto che accusa la Biennale d’Arte di aver intensificato il turismo fino a deturpare Venezia e una scritta sul retro di una cornice vuota che recita “La Biennale è fascista”. E la lista è lungi dall’essere completa.
Di queste migliaia di oggetti (perché anche senza contarli sono di certo migliaia, non centinaia), solo 147 sono contrassegnati da un numero. Ecco a cosa serve il presunto bollettino d’asta: lì si trovano descrizioni di questo sottogruppo di oggetti. Sono descrizioni a dir poco sommarie. Dunque anche i più diligenti che consultano il bollettino, e sembrano essere in pochi, non apprendono granché. Così si legge al numero 24: “Prestito ipotecario generale di 200.000£ del Principato di Poyais, 1823, firmato dal maggiore William John Richardson, incaricato d’affari di MacGregor’s a Londra, formato grande, stampa nera e blu di Whiting con classico disegno in alto, cedole ai lati, un paio di piccoli strappi ai bordi”. Manca però il succo della storia: Gregor MacGregor, avventuriere scozzese, architettò una delle maggiori (e meno note) frodi della finanza internazionale moderna, sollecitando investimenti per la colonizzazione di un immaginario regno di Poyais in Centro America.[2]
Vera occasione mancata è la descrizione di due statue di san Bernardino da Siena, targate 50 e 77, una del 1490 e una di metà Settecento. Nessun accenno al fatto che il santo appartenne all’ordine dei francescani, fondatori dei monti di pietà, e fu uno tra i più infervorati istigatori delle folle di fedeli cristiani contro usurai, prostitute ed ebrei.
Tra pianificazione puntigliosa e camuffamento
A dispetto della confusione generale che regna nelle sale, tutto è stato meticolosamente pianificato, compresa la superficialità di queste descrizioni e l’apparente accozzaglia di oggetti. Un team diretto da Chiara Costa, Head of Programs della Fondazione Prada, ha assistito Büchel per ben due anni nella preparazione del progetto.[3] Un lavoro di ricerca massiccio condotto su scala sia globale che locale. Ecco che il sottofondo musicale in una delle sale del mezzanino adibita a casinò è l’iconica Pin Floi (Pink Floyd) dei Pitura Freska, satira pungente delle conseguenze devastanti che il turismo di massa ha avuto su Venezia. Per qualche anno il gruppo musicale dei Pitura Freska raggiunse una certa fama in tutta Italia pur cantando in dialetto veneziano. Ma oggi, chi tra i visitatori, per la maggior parte stranieri, è in grado di riconoscerla?
Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Quelli citati dovrebbero bastare a mettere a nudo il paradosso di questa mostra: ogni dettaglio è stato scrupolosamente progettato ma l’artista ha cancellato quasi ogni traccia di questa ricerca minuziosa. Dico quasi perché Büchel dissemina il percorso di qualche indizio.
Una targhetta è apposta alla porta chiusa sul primo pianerottolo: “D. Graeber”. Chi la scorge? A chi il nome dice qualcosa? In un angolo del piano nobile, accostato al muro e non facile da notare, vedo la copia usata di un libro dalla copertina rossa: Il debito. I primi 5000 anni di David Graeber.[4] È un oggetto della mostra, e in quanto tale non lo si può sfogliare. Pertanto funziona da indizio solo per chi ne conosca già i contenuti.
Morto prematuramente durante una visita a Venezia nel 2020, David Graeber era un antropologo e attivista divenuto figura di spicco del movimento Occupy Wall Street. Il suo best-seller è al contempo omaggio e filo di Arianna con cui farsi largo nel labirinto della mostra. Per chi non l’avesse letto, Il debito. I primi 5000 anni è un testo colmo di citazioni accademiche ma accessibile al pubblico più ampio. La prima parte, di taglio antropologico, è tesa a dimostrare che il debito ha creato gerarchie e conflitti in tutte le società umane, anche quelle che una volta erano dette “primitive” e immaginate come armoniose ed egalitarie. La seconda parte del libro è una carrellata storica che va dalle tavolette cuneiformi sumere del 3500 a.C. ai giorni nostri. Pagina dopo pagina Graeber insiste a parlare di debito, mai di credito. Non c’è scambio economico né denaro senza debito; eppure il debito trascende la sola sfera economica e diventa sinonimo di organizzazione sociale. L’indebitamento struttura tutte le istituzioni e tutte le relazioni umane veicolando disuguaglianze e dominazione.
Questo è anche il messaggio della mostra: ogni ambito della vita è permeato dal debito e il debito comporta sempre violenza e oppressione, che si tratti delle stecche del corsetto regalato da un fidanzato alla futura moglie come pegno d’amore (lotto 49), della montagna di oggetti mai reclamati da chi si era visto costretto a lasciarli al banco dei pegni o della licenza rilasciata alla South Sea Company inglese nel 1713 per la vendita di schiavi africani nelle colonie spagnole nelle Americhe (lotto 104).
A questo punto, mi accorgo di star covando non poca frustrazione. L’appiattimento di ogni specificità e dimensione storica porta a fare di tutta l’erba un fascio. Mi viene la tentazione di riassumere l’intera mostra con le parole di un’altra canzone dei Pitura Freska: “ma quei che ne comanda / i xe sempre ‘na bruta banda”. Troppo presto.
Ulteriori indizi
A ben guardare, c’è un altro filo conduttore che si dirama lungo i tre piani dell’installazione. Gli indizi in questo caso non devono nulla a Graeber. Sono una serie di oggetti, sparsi qua e là, associati agli ebrei, alla Germania nazista, alla Palestina e allo stato di Israele. Nessuno compare nel bollettino dell’asta giudiziaria che funge da guida parziale alla mostra. Sta ai visitatori individuarli e interpretarli.
Lasciatemi elencare quelli che ho notato (non mi stupirei se me ne fosse sfuggito qualcuno): due manifesti del film L’uomo del banco dei pegni (1964) di Sidney Lumet, il cui protagonista è un sopravvissuto di Auschwitz; una copia della cosiddetta Dichiarazione Balfour del 1917; una lettera del 1948 dell’ambasciatore degli Stati Uniti alla Commissione delle Nazioni Unite per la Palestina; il catalogo dell’arte degenerata compilato dai nazisti; una teca di vetro contenente un candelabro a sette braccia con una stella di Davide accanto a vari oggetti civili e militari risalenti a diversi periodi storici, tutti provenienti dalla regione della Palestina; “La mappa di guerra dello Stato di Israele”, stampata a Tel Aviv e raffigurante i confini tracciati il giorno della tregua, il 18 luglio 1948; una mappa geografica della Palestina in tedesco con gli antichi regni biblici a fianco di un pannello con i triangoli colorati usati dai nazisti per identificare i gruppi da loro perseguitati (rosso per i prigionieri politici, giallo per gli ebrei, rosa per gli omosessuali, ecc.); alcune monete commemorative emesse quando l’allora presidente Donald J. Trump trasferì l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme nel 2018; un videogioco con un punto interrogativo nel sottotitolo: “Conflitto: Medio Oriente; guerre arabe/israeliane 1973-?”; una t-shirt con il logo della Coca-Cola scritto in ebraico e due magliette con il logo della “Palestine Football Association”. Solo all’uscita, percorrendo a ritroso Calle di Ca’ Corner della Regina, capisco che un’immagine sbiadita incollata sul muro esterno del palazzo non è un pezzo di street art ma appartiene alla mostra. Si tratta di una resa grafica della foto di un padre che piange il figlio morto, scattata a Gaza dal fotoreporter Mahmoud Bassam il 17 ottobre 2023 e divenuta tristemente celebre.
Ripeto: nessuno di questi oggetti è etichettato o commentato in alcun modo. Una deroga a questa regola mi pare, tuttavia, offrire una chiave di lettura attendibile.
Il “museo del debito e della guerra”
In una stanza laterale al piano terra, tra le macerie di un bombardamento aereo, sono accatastati l’uno sull’altro diversi sacchi di cemento. Il nome della ditta, Nesher, e le parole in lettere degli alfabeti ebraico e arabo non lasciano dubbi: il cemento è prodotto un’azienda israeliana. La targa all’ingresso della sala recita “Museo del debito e della guerra; orari di apertura: tutto l’anno / tutti i giorni su prenotazione”. Su prenotazione? Tocco d’ironia per segnalare l’indifferenza generale verso la devastazione causata da tutte le guerre o solo dagli orrori della guerra di annientamento in corso a Gaza?
La sala adibita a “Museo del debito e della guerra” è tutt’altro che l’unico riferimento allo stanziamento di fondi pubblici per la mobilitazione bellica. Al piano superiore si è accolti da attrezzature militari pesanti che nulla hanno a che vedere con gli oggetti impegnati in un monte di pegni di qualsiasi epoca. Prove della funzione svolta dal debito pubblico per lanciare guerre di aggressione e di conquista coloniale si moltiplicano. Il lotto 140 presenta i buoni del tesoro emessi da diversi stati per finanziare le rispettive campagne militari nel corso del XX secolo. Insomma, mentre la condanna dalle guerre sovvenzionate dal debito pubblico è onnipresente, Israele è il solo a comparire nella sala espressamente dedicata a questo tema.
Siamo ai primi di agosto e in previsione della mia visita leggo vari resoconti della mostra apparsi in quotidiani e periodici più o meno autorevoli. Nessuno mi prepara. Neppure un’avvisaglia alle allusioni scivolose ai nessi tra ebrei, debito e strapotere economico a fianco della riprovazione della politica israeliana. Neppure un cenno al retaggio antisemita dei monti di pietà. Rimango esterrefatta al punto di decidere di tornare una seconda volta per verificare e approfondire la cosa. Parlarne con amici e conoscenti conferma i miei timori: la maggior parte non conosce Graeber e solo una persona ha scorto, come me, molte tracce che riconducono agli ebrei e a Israele nel marasma generale della mostra. Nel mio caso, a farmi intravedere gli indizi disseminati da Büchel non sono motivi identitari, per così dire, bensì professionali, dato che mi occupo di storia economica e ho studiato gli stereotipi antiebraici nel pensiero economico occidentale.[5] Inevitabilmente mi chiedo chi scorga che cosa tra i cumuli di materiale esposto. Non solo l’artista priva i visitatori di qualsiasi orientamento, ma ci vuol pazienza a soffermarsi su ogni oggetto, in ogni stanza, a ogni piano.
Giocare a nascondino, giocare col fuoco
Con questo allestimento sovversivo degli schemi abituali Büchel favorisce le libere associazioni, lasciando che ciascuno tragga le proprie conclusioni. Il problema delle libere associazioni è che raramente si possono dire libere. Ognuno porta con sé un bagaglio di presupposti e preconcetti. I sottintesi si prestano a essere fraintesi.
Durante la mia prima visita vedo (e fotografo) una scritta a pennarello “Nakba 1948” sulla lavagna su cui è affissa anche la Dichiarazione Balfour del 1917. Quando torno due settimane dopo, la scritta non c’è più. Opera di qualcuno che ha preso sul serio il proprio ruolo di spettatore partecipante e magari ha interpretato la mostra come filoisraeliana? Oppure di un visitatore che, salendo al mezzanino dopo essersi addentrato nel “Museo del debito e della guerra”, voleva rincarare la dose contro Israele? Possiamo addirittura immaginare che alle guardie di sala sia stato detto di scrivere e cancellare “Nakba 1948” a diverse ore del giorno? Più probabile che abbiano intercettato l’indebita aggiunta solo tardivamente e prontamente ripulito la lavagna.
Un ulteriore segnale della molteplicità di prospettive con cui ci si può avvicinare alla mostra arriva il 13 settembre 2024 con la richiesta da parte del rappresentante della European Jewish Association di rimuovere documenti e artefatti che “ripetono triti luoghi comuni antisemiti”[6] – richiesta alla quale, stando a quanto riferito da un giornalista ben informato, la Fondazione Prada non ha dato risposta.[7] Personalmente avrei preferito che la critica fosse arrivata da una voce meno di parte. Un paragrafo della circolare della European Jewish Association spiega i motivi del mio rammarico: “Non capisco come la Fondazione Prada possa non aver notato i chiari topoi antisemiti in mostra nell’installazione. Se lo hanno notato o meno è irrilevante, ma tutti gli ebrei e tutti gli israeliani che hanno visitato l’installazione hanno subito colto dove volesse andare a parare perché abbiamo visto ripetersi il problema durante tutta la storia umana.” Si noti lo slittamento dal pronome personale singolare (io) a quello plurale (noi) e l’abbinamento tra ebrei della diaspora e cittadini di Israele (fra questi ultimi, va ricordato, oltre il 20% è palestinese).
Si torna sempre lì. Da un lato, la protesta da parte di chi si fa portavoce di “tutti gli ebrei e tutti gli israeliani” brandisce lo spettro di un antisemitismo eterno e immutabile, che facilmente si tramuta in scusante di azioni politiche e militari ingiustificabili e finge di ignorare le divisioni all’interno dell’opinione pubblica ebraica riguardo alle politiche israeliane in Medio Oriente.[8] Dall’altro, volendo condannare la violenza perpetrata dallo stato di Israele nei confronti dei Palestinesi, la mostra rischia di favorire – più o meno consapevolmente – libere associazioni di stampo antisemita.
Mi si potrà obiettare che Büchel è un artista, non un diplomatico o uno studioso. Non ci aspettiamo da lui un programma politico coerente, né tanto meno una dissertazione accademica. Monte di pietà vuole essere prima di tutto un’esperienza visiva e sensoriale, tanto che sotto un titolo ben preciso l’artista accomuna un coacervo di temi – la mercificazione dell’arte, lo strapotere dei media e delle grandi aziende, il dilagare di povertà e indebitamento, l’onnipresenza del gioco d’azzardo, l’aumento incessante del debito pubblico e il suo legame a doppio filo con l’apparato bellico.
Eppure, l’attentissima cura con cui sono stati selezionati gli oggetti ci dice che non si tratta di scelte innocenti né tanto meno casuali. Ciò ci autorizza a utilizzare gli indizi disseminati lungo il percorso espositivo per far crollare il castello di carta costruito da Büchel. E ce ne sono ancora. Al terzo piano, non lontano da dove vengono ricostruiti gli sportelli del monte di pietà, su un tavolo disposto come se fosse quello di una studiosa o di un curatore di museo, sono posati, in buon ordine, libri autorevoli sulla storia della banca e dei banchi di pegni, le loro architetture e rappresentazioni nelle arti visive. Tra i titoli ben allineati ne intravedo uno di Giacomo Todeschini, Il ghetto e la banca, il quale, da solo, basterebbe a smantellare le insinuazioni antisemite suggerite da Büchel. Todeschini, grande studioso dei linguaggi economici tardo medievali, ha infatti dimostrato come, per secoli, i pensatori cristiani abbiano brandito polemicamente lo spettro dell’avarizia degli ebrei per difendere l’utilità pubblica della finanza cristiana.[9]
A voler essere benevoli si potrebbe pensare che Büchel, o uno dei suoi collaboratori, abbia inserito Todeschini in mostra per disinnescare le illazioni antisemite che vi serpeggiano. Ma in quanti conoscono i lavori di Todeschini a sufficienza da suffragare una tale ipotesi? Una volta di più mi chiedo come possa la maggior parte dei visitatori decifrare la miriade di riferimenti sibillini volti a orientare la loro esperienza immersiva. Tant’è che per alcuni qualunque associazione tra ebrei e debito rafforzerà pregiudizi preesistenti, mentre, in altri, come si è visto, ha provocato un forte rigetto. C’è poi chi non si accorgerà di nulla – occasione mancata per altri motivi. Büchel si nasconde dietro una pedagogia fatta di omissioni e congetture: a che pro?
L’ambiguità come scelta
All’uscita, fermandomi in biglietteria per ritirare la borsa che avevo dovuto lasciare in deposito, chiedo se sia possibile acquistare un catalogo della mostra. Siamo a tre mesi dall’inaugurazione e mi viene detto che un catalogo è in corso di preparazione. Finalmente a ottobre Filippo Benfante mi informa che il volume è apparso online e me ne procuro una copia (al momento disponibile solo in inglese). Com’era prevedibile, l’aspettativa di ricevere qualche chiarimento in più da parte dell’autore o da critici chiamati a commentare la mostra svanisce immediatamente.
Di aspetto, il catalogo somiglia a un messale: copertina nera, titolo in oro, due fettucce segnalibro rosse, alcune delle quasi mille pagine in caratteri gotici. Il contenuto corrisponde alla filosofia della mostra. A differenza di un tradizionale catalogo, non vi si trova alcuna scheda sul materiale esposto o saggio interpretativo, bensì 120 brevi estratti da classici e meno classici, raccolti in ordine cronologico dal libro della Genesi a lavori accademici recenti. L’eterogeneità è grande; la prevalenza è di opere del XX secolo di autori per lo più occidentali (compreso Graeber); il legame con i temi della mostra è più o meno evidente. Un cenno alla rivalità tra banchi di pegno francescani ed ebraici figura a pagina 337, in un saggio di Maria Giuseppina Muzzarelli, mentre Todeschini non compare nel volume e i passi del trattato sui contratti di Bernardino da Siena omettono le sezioni sugli ebrei come usurai. Due testi, firmati uno da Megan O’Toole e uno da Nizar Hassan, descrivono gli sforzi titanici per tenere in piedi una stanza-museo della storia e della cultura palestinese nel campo profughi di Shatila, a Beirut, e dunque per resistere alla negazione dell’esistenza di tale storia e cultura. A seguire, il sermone di un rabbino ortodosso, Berel Wein, che gioca sul doppio significato, letterale e metaforico, delle parole accountability e bankruptcy, che da gergo economico sforano in quello etico. Per Wein, la responsabilità individuale (accountability) è centrale nell’ebraismo e allontanarsi dagli insegnamenti della Torà equivale ad andare in bancarotta. Come interpretare questo e altro di cui il catalogo straripa?
Domenica 24 novembre 2024, a chiusura della mostra, si terrà una simulazione dell’asta annunciata dal bollettino distribuito ai visitatori. Una finta asta di un finto monte dei pegni in un palazzo sul Canal Grande che Prada ha acquistato nel 2011 dal Comune di Venezia per 40 milioni di euro. La denuncia degli eccessi del capitalismo finanziario sponsorizzata da una grande firma della moda internazionale con un fatturato aziendale, nel 2023, di oltre 5 miliardi di dollari.[10] Dei confini piuttosto labili tra condanna del governo di Israele e stereotipi antisemitismi. Un condivisibile impulso anti-gerarchico che sconfina in diniego di ogni forma di competenza. L’arte contemporanea può ancora scandalizzare. In questo caso non per le ragioni volute dall’artista e dai suoi promotori.
Nota della redazione. Francesca Trivellato ha già pubblicato su altrochemestre.it la sua lettura di un libro di Maria Antonietta Visceglia dedicato a Elena Fasano Guarini. Nel suo recente Ebrei e capitalismo (qui citato alla nota 5) ha studiato la longevità e la diffusione in Europa, a partire dal Seicento, della leggenda che, falsamente, attribuiva agli ebrei l’invenzione della lettera di cambio, mostrando come approdò anche tra gli autori delle grandi teorie sulla nascita del capitalismo (Marx, Sombart e Weber). Segnaliamo inoltre Il commercio interculturale. La diaspora sefardita, Livorno e i traffici globali in età moderna, trad. it. di Andrea Caracausi, Barbara Di Gennaro Splendore, Francesca Trivellato, Viella, Roma 2016, e la raccolta di saggi Microstoria e storia globale, trad. di Filippo Benfante, Officina Libraria, Roma 2023.
Ringraziamo Francesca Trivellato per averci proposto la sua lettura di una mostra, e per la sua disponibilità a discutere le nostre obiezioni. Le opinioni contenute in questo articolo non impegnano la redazione, che conta di ricevere altri punti di vista sulla mostra, sul lavoro di Büchel e sulle questioni sollevate.
(Tutte le immagini di questo articolo sono di Francesca Trivellato.)
[1] Si veda https://www.fondazioneprada.org/project/monte-di-pieta/.
[2] Studi recenti hanno approfondito questo episodio: Damian Clavel, “What’s in a Fraud? The Many Worlds of Gregor MacGregor, 1817-1824”, Enterprise & Society, 22, 4, 2021, pp. 997-1036; Clavel, Créer un pays, le royaume de Poyais. Gregor MacGregor, emprunts d’État et fraude financière 1820-1824, Livreo-Alphil, Neuchâtel 2022.
[3] Così stando a un’email di Costa riportata in Scott Reyburn, This Enormous Artwork Turns a Palace into a Pawnshop, “New York Times”, 14 agosto 2024.
[4] David Graeber, Il Debito. I primi 5000 anni, trad. di Luca Larcher, Alberto Prunetti, Il Saggiatore, Milano 2012.
[5] Mi permetto di rinviare a F. Trivellato, Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata, trad. di Filippo Benfante, Francesca Trivellato, Laterza, Roma-Bari 2022. Discuto la mostra di Büchel anche in F. Trivellato, Toutes les dettes ne se valent pas, “Annales. Histoire, Sciences Sociales”, 79, 3, 2024.
[6] Mia traduzione dall’originale inglese firmato rav Meanchem Margolin e pubblicato online: https://ejassociation.eu/eja/fondazione-prada-called-on-to-remove-artful-antisemitism-on-display-in-venice-by-european-jewish-association/.
[7] Gregorio Botta, Non per soldi ma per denaro, “la Repubblica – Robinson”, domenica 13 ottobre 2024, p. 41.
[8] Basti pensare agli appelli di Jewish Voices for Peace, uno sottoscritto anche in Italia e agli interventi pubblici di alcuni esponenti del mondo ebraico italiano; tra tutti, si veda Stefano Levi Della Torre intervistato da Eleonora Camilli, Da ebrei denunciamo lo sterminio a Gaza. Siamo contro il sostegno acritico a Israele, “La Stampa”, 15 aprile 2024 [ndr si può leggere online nel blog di Francesco Macrì].
[9] Giacomo Todeschini, Il ghetto e la banca. Una storia italiana (secoli XIV-XVI), Laterza, Roma-Bari 2016.
[10] Si veda online: https://companiesmarketcap.com/prada/revenue/.
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