Camminare a Marghera, per ambientarci un romanzo. Contrasti e stridori. Luoghi dismessi. Luoghi di lavoro. Operai e smart workers. Una continua metamorfosi. Cose dette a un incontro pubblico.
Una stazione lunare
Ho messo piede la prima volta a Marghera, pur abitando a Treviso, a non più di venti chilometri di distanza, solo a trentacinque anni, nel 2015; prima non avevo mai avuto una ragione per venirci. Il motivo che mi ci ha portato è stato quello di iniziare a esplorare il luogo dove aveva sede l’azienda di consulenza informatica fondata da un mio caro amico, un mio compagno delle elementari. Nel libro si chiama Albecom, e appunto ha sede al Vega.
La prima volta sono venuto in treno, fermandomi a Porto Marghera. Sono sceso con due ragazze giapponesi, che chiaramente avevano sbagliato destinazione: forse qualcuno aveva detto loro che Venezia era la fermata successiva a Mestre, ma loro sono state sfortunate e hanno preso il treno che fermava anche a Porto Marghera, e quindi erano lì molto spaesate. Lo ero anch’io, devo dire la verità, anche perché non è facilissimo uscire dalla stazione di Porto Marghera. Esci ma entri in un edificio…
Il Vega mi sembrava un luogo un po’ alieno, lunare, difficile da raggiungere. Ho iniziato in treno non a caso. Con la macchina mi sono inoltrato dopo un po’, titubante; oggi ci vengo con una discreta sicurezza ma ci sono voluti anni di perlustrazioni, di esplorazioni.
Il posto mi sembrava davvero alieno, con dipinte sugli edifici queste strisce orizzontali bianco e grigetto che hanno qualcosa di vagamente carcerario. Ci sono anche le sbarre per entrare, per cui si ha l’impressione di un privilegio (“càspita, per entrare qui dentro con la macchina c’è una sbarra da superare”), tanto che devi comunicare la tua targa, però poi in realtà puoi lasciare la macchina fuori tra i binari dismessi, e anche questo provoca uno stridore impressionante: da una parte la sensazione di privilegio e dall’altra le macchine buttate là in una zona tra sterpaglie, sporcizia, abbandono.
Un flâneur a Marghera
Non ero sicuro che il libro sarebbe stato ambientato a Marghera. A me interessava l’azienda, mi interessava entrarci dentro: pur essendo insegnante di Lettere in una scuola, volevo ambientare il libro in una azienda informatica, ossia in un luogo molto lontano dal mio mondo; lo volevo per varie ragioni, ma l’azienda informatica potenzialmente avrebbe potuto essere ovunque, in una periferia di una qualunque altra città, non necessariamente lì dov’era nella realtà.
Poi però ho iniziato le mie perlustrazioni a piedi… passavo davanti alla Fincantieri, attraversavo a piedi il passaggio a livello, arrivavo in via della Pila, e poi North Bank… Ho conosciuto i luoghi così, camminando, come fossi stato un flâneur dell’Ottocento, passeggiando per Marghera. Mi sono segnato molte cose e ho capito che non potevo che ambientarlo lì, il romanzo, perché c’era un mucchio di stridori tra cose opposte che sono molto fertili dal punto di vista letterario, perché creano scintille, contrastano le une contro le altre.
Contrasti
A Marghera, in particolare al Vega, c’è il vecchio e il nuovo. Allora la ditta del mio amico faceva dodici dipendenti (adesso sono ottocento: in meno di dieci anni è cresciuta… fate voi il conto). Mi mettevo lì in un angolino con un block notes, e sembravo una specie di giudice, o l’amico del capo: il mio amico spesso non era in azienda per cui sembravo un delatore messo lì per segnare chi lavorava e chi no. In realtà poi ho spiegato ai dodici dipendenti che allora c’erano che i miei appunti avevano un altro scopo.
Il Vega è di fronte a tutta una serie di edifici dismessi, in eterna dismissione, quindi c’è il nuovo e il vecchio uno davanti all’altro, l’invisibile e lo smaterializzato accanto al molto grande… Un’azienda informatica produce qualche cosa che non si può toccare e che è difficile persino da definire: ogni volta che chiedevo al mio amico “ma che cosa fate?”, lui rispondeva “noi lavoriamo con i computer”. Allora ho voluto vedere con i miei occhi cosa fanno: fanno siti, curano l’e-commerce per clienti anche molto importanti, insomma producono qualcosa che non si può toccare; dall’altra parte, a pochi metri, c’è un’azienda, la Fincantieri, che produce la cosa più grande che si possa immaginare, e questo era un altro stridore, un’altra dissonanza.
Un’altra cosa che mi colpiva era il modo nuovo di lavorare del Vega. Mentre ogni tanto passando davanti a Fincantieri vedevo sciamare gli operai alla fine del turno (un’immagine otto-novecentesca del lavoro di fabbrica: gli operai che escono in gruppo dai cancelli), lì nei pressi di una azienda informatica non vedevo quasi mai nessuno, semmai qualcuno di spaiato, perché quello è un tipo di lavoro che non ha orario fisso: uno entra ed esce quando gli pare, e se uno fa smart working può entrare un po’ dopo o uscire un po’ prima. Hai poi questa impressione di silenzio strano, ed è diverso dal resto di Porto Marghera, che è fatto di stridori, di rumori dissonanti, mentre lì al Vega spesso capita di non sentire un rumore. Anche questo è un po’ straniante: l’assenza di persone. Ti chiedi: lavorano davvero qui dentro? che cosa fanno?
Dice Zanzotto che c’è un rapporto circolare tra il paesaggio e chi lo abita. Al Vega questo rapporto è l’atomizzazione: c’è l’atomizzazione dei lavoratori che vanno lì ogni giorno, e c’è l’atomizzazione progettuale, architettonica; ci sono delle belle realtà, ma sono isolate, non sanno che due numeri civici più in là c’è qualcos’altro di interessante; le persone sono atomizzate, vanno lì una alla volta, e allo stesso modo il progetto che c’era dietro il Vega si è frantumato. Quel paesaggio rispecchia la società… Il Vega è un supercondominio tipico di oggi, in cui chi abita al secondo piano non sa chi abita al quarto.
È stato tutto questo insieme a colpirmi e a convincermi che dovevo cercare di metterlo in parole: tutto sommato era un luogo che aveva una sua identità che io non avevo trovato da altre parti, nelle zone industriali tutte uguali, tutte fotocopia una dell’altra, che abbondano nel resto del Veneto. Quel luogo no, quel luogo aveva qualche cosa di suo, di peculiare, non solo per la sua storia. Era evidente che c’era anche la storia: lì vicino c’è la chiesetta dell’Agip, il vecchio Breda… Marghera ha questa caratteristica, che la sua storia non la nasconde, le sue ferite non le occulta, te le fa ancora toccare: però io non volevo inoltrarmi nella storia di Marghera, che è un tema scivoloso. Già la geografia mi era un terreno estraneo. E in più inoltrarmi nella storia mi sembrava poco interessante anche da un punto di vista narrativo. Però è ovvio che anche l’archeologia di Marghera qualche scintilla la creava.
Non inventare niente
Camminare – non è una cosa originale quella che dico – è il modo migliore per osservare, e osservare è fondamentale per chi scrive. Il lavoro dello scrittore inizia quando osserva, e finisce quando scrive, ma una buona metà del lavoro è data dall’osservazione; non prendevo appunti mentre camminavo, e ho camminato un po’ dappertutto, fino a qua dove si trova l’Ateneo degli Imperfetti, anzi amavo molto queste parti tant’è che alla fine del romanzo c’è una scena ambientata qua vicino, alla chiesa di Gesù Lavoratore, poi è citata l’osteria Al Diplomatico, la trattoria da Viola… Non riesco a inventare niente. Questo può comportare delle reazioni diverse da parte dei lettori e anche delle conseguenze negative. Il direttore di un albergo a Treviso, citato con il suo nome, voleva denunciarmi per averlo denigrato. Invece a Marghera dagli esercenti dei negozi che ho nominato ho ricevuto solo complimenti.
I luoghi di Marghera restituiscono qualcosa del passato anche al visitatore estraneo com’ero io, lo restituiscono anche se sono in abbandono, anche se sono chiusi come io ho sempre trovato la chiesetta dell’Agip. Lo restituiscono non solo in una forma di testimonianza del passato, ma anche di spinta, di impulso. I luoghi abbandonati hanno questo di bello: non sono soltanto luoghi che disertano ma anche luoghi che offrono. Di solito questa restituzione non viene abbinata all’abbandono, che è sentito come qualche cosa che sta andando alla deriva e si allontana dagli altri, ma invece secondo me i luoghi abbandonati si avvicinano anche a chi li vuole avvicinare, e continuano a restituire qualcosa. Io ho trovato questo di interessante al Vega, a Marghera, il fatto che siano luoghi in continua evoluzione – sono in continua metamorfosi.
Se non segno le impressioni immediatamente, è perché mi piace selezionare quelle che rimangano: se sono rimaste quelle e non altre c’è un motivo, e scrivere è cercare di capire perché proprio quelle impressioni sono rimaste e altre no, perché quel luogo è rimasto e altri no… Quindi il mio era un camminare e basta, con la sola disponibilità a farmi impressionare: non prendevo appunti con il cellulare come fa qualcuno, perché il cellulare è già uno strumento che ti distrae dal guardarti continuamente attorno.
Rappresentare i luoghi
La prima cosa che avevo scritto per saggiare la tenuta letteraria di quel luogo è stato un reportage in versi nel 2014, pubblicato nella Lettura del Corriere della Sera. Occupava quattro pagine e c’era, tra le altre, una mia foto della chiesetta della Rana. Era un reportage in versi, una forma strana per un reportage, ma secondo me era una forma giusta per raccontare un luogo in continua metamorfosi. Una poesia non si può sapere di che cosa parlerà: una caratteristica della poesia è che non può essere scritta a tesi, mentre per un romanzo uno si deve fare prima uno schema, bene o male, anche un po’ vago, con i personaggi, il numero di pagine, la divisione in capitoli, altrimenti esce qualche cosa di asimmetrico, di disordinato… La poesia invece ha bisogno di improvvisazione, non di programmazione, e quindi ho pensato che il reportage in versi fosse la forma migliore per rappresentare qualche cosa che non puoi fissare proprio perché è in continuo cambiamento.
Non a caso la forma che ha utilizzato Andrea Segre per rappresentare Marghera è stata quella di documentarla. Molti di voi avranno visto Il pianeta in mare, il suo documentario su Marghera. Il documentario è qualche cosa che tu non puoi programmare: non puoi sapere che cosa diranno i personaggi che stai filmando, anzi spesso lo scopri dopo. Lui per esempio filmava operai della Fincantieri che parlavano lingue che non conosceva, e dunque non sapeva che cosa si stessero dicendo in quel momento, l’ha scoperto dopo quando ha chiesto l’aiuto di qualche traduttore. Un documentarista non può che avere uno scarso controllo di quanto sta creando. Sono tutte due forme – sia il documentario sia il reportage in versi – dinamiche, in movimento. Marghera sembra esigere questo tipo di forma espressiva per essere rappresentata.
Nota. Francesco Targhetta, autore del romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie (Mondadori, Milano 2012), ha ambientato il suo secondo libro Le vite potenziali (Mondadori, Milano 2018) al Vega di Marghera. È intervenuto all’incontro “Allunaggi al Vega. Una presenza ai confini di Marghera” (15 marzo 2024, Ateneo degli Imperfetti, Marghera) organizzato dal gruppo aMarghera e dal Laboratorio Libertario. Oltre a lui hanno partecipato alla discussione Annapaola Passarini (Argo 16-Spazio Aereo) ed Ezio Da Villa (Studio di ingegneria De Materia); Giancarlo Ghigi, di aMarghera, ha presentato e moderato l’incontro.
Le immagini che illustrano l’articolo sono dell’autore. L’immagine di apertura è tratta dalla pagina facebook di VEGA Parco Scientifico Tecnologico di Venezia https://www.facebook.com/vegapst/?locale=it_IT.
Lascia un commento