Traversie del parco tecnologico scientifico VEGA raccontate in un incontro pubblico da un “abitante e innamorato di Marghera” che l’ha visto nascere. Con una nota di Giancarlo Ghigi
Nei primi anni Novanta del Novecento, quando nasce il Vega, era in corso l’ennesima crisi di Porto Marghera, in particolare si stava chiudendo il settore della chimica per l’agricoltura, nato nel 1926 con la società Veneta Fertilizzanti e Prodotti Chimici di Milano. Proprio dove adesso sorge il Vega, era ubicata “l’area ex ceneri”, dove si lavoravano ceneri di pirite, dalle quali si ottenevano rame, ferro e solfato di sodio. Poco distante operava l’impianto per la produzione di acido solforico di Montecatini, e con lavorazioni successive si arrivava ai fertilizzanti utilizzati in agricoltura; un po’ più a sud c’era l’area dello stabilimento Complessi, sempre di fertilizzanti.
Non so se qualcuno o qualcuna di voi ha avuto modo di vedere uno scavo in trincea in qualunque zona del bordo lagunare: a partire da Passo Campalto fino a Fusina; sotto il Parco di San Giuliano, sotto il Villaggio San Marco, sotto la Prima Zona Industriale, sotto la Seconda Zona Industriale. Per quattro-cinque metri di profondità ci sono terre di un colore che non è di certo quello delle argille o dei limi della laguna di Venezia. Sono ceneri di pirite, rifiuti solidi provenienti dalle produzioni chimiche di fertilizzanti; sono fanghi di bauxite, scarti della lavorazione di alluminio; sono il nerofumo, ceneri di carbone e così via. Si tratta dell’eredità di questi cento anni di presenza industriale a Porto Marghera. È un disastro ambientale così grande che tutto il tratto di bordo che si affaccia sulla laguna di Venezia, non è più bonificabile. La quantità e la qualità dei contaminanti, che poi hanno compromesso le falde sotterranee, è talmente estesa e grave che il costo per risanare il terreno diventa impossibile da affrontare.
Alla fine degli anni Ottanta ero uno di quei giovani ambientalisti che rincorrevano le navi che scaricavano in mare i fosfogessi, cioè i fanghi derivanti dalla lavorazione delle fosforiti con cui si facevano i fertilizzanti; siccome non c’era più posto lungo il bordo lagunare, i rifiuti industriali venivano caricati nottetempo su navi che poi li scaricavano in mare qualche miglio al largo del Lido, con regolare autorizzazione. Si vedeva questa massa di fanghi che andava a colorare l’acqua del mare, proprio davanti alle spiagge del Lido. Invece le collinette che si vedono davanti all’ipermercato Lando, quelle sono cumuli di ceneri di pirite. Se andiamo in giro per il territorio, troviamo ovunque i sottoprodotti velenosi di quel periodo industriale.
Torniamo al Vega: in quegli anni le pubbliche amministrazioni, che ancora perseguivano un’idea di sviluppo per Marghera, cominciavano – in mezzo a conflitti sindacali e a conflitti ambientali – a prefigurare nuove possibilità, perché si capiva che un’epoca era finita. Chi fa il sindacalista di mestiere tende a mantenere quello che c’è, perché vive di quello, ma era chiaro che l’epoca dell’alluminio, dei fertilizzanti e del petrolchimico – quindi delle attività della prima e della seconda industriale – era finita, e che quei tipi di lavorazione non si sarebbero più potuti svolgere a Marghera, sia per le norme ambientali che si stavano imponendo, sia, soprattutto, per i costi che aumentavano sempre più, e quindi si cominciava a prefigurare la necessità di guidare una conversione di Porto Marghera.
L’idea di costituire un Parco Scientifico e Tecnologico nasce su iniziativa dell’Enichem di allora, su esempio di quanto avveniva in altre parti in Europa, per sfruttare le potenzialità infrastrutturali di un luogo che non ha eguali in Europa (stiamo parlando di duemila ettari, venti milioni di metri quadrati, il Vega comprende 80mila metri quadrati, 0,4% di quell’area). Il Parco Scientifico e Tecnologico nasceva come incubatore di iniziative e attrattore di investimenti, per creare una nuova zona industriale che lavorasse con materiali completamente diversi – sulla bonifica, sulle riqualificazioni, sulle bio-plastiche e così via. L’idea insomma era quella di costituire un luogo che fosse legato a un patrimonio infrastrutturale, per rigenerarlo, riqualificarlo, e creare lavoro ambientalmente sostenibile, diverso da quello precedente.
Vega parte nel 1993, e da allora l’idea si sviluppa attraendo investimenti pubblici ed europei. Io vedo questa vicenda da abitante e innamorato di Marghera. L’idea era: possiamo finalmente riappropriarci di Porto Marghera. Non era mai successo prima, perché i grandi poteri economici avevano creato un diaframma che tagliava di netto il quartiere urbano dalla zona industriale; fino agli anni Novanta nessuno si era permesso di contestare e di contrastare ciò che avveniva dentro le fabbriche… Lo facevano gli operai là dentro con le loro battaglie civili, sindacali… gli operai prendevano in mano le proprie condizioni di lavoro in fabbrica, ma c’era un diaframma che li separava dalla Marghera urbana… Nei primi anni Novanta nel Comune di Venezia e nel Consiglio di quartiere, poi municipalità, di Marghera c’era il centro-sinistra, mentre in Regione c’era il centro-destra con Galan, ma le due amministrazioni hanno lavorato assieme per la realizzazione del parco scientifico tecnologico, che come ho detto ha attratto investimenti – tanti investimenti …
Adesso il Vega è tutt’altro. Ci sono studi professionali che si occupano di ICT(Tecnologia dell’informazione), di policy, di green policy. Ma non c’è nessun legame tra quello che accade a Porto Marghera e quello che si svolge là dentro. Non c’è un trasferimento di know-how, di idee, non ci sono collegamenti con le imprese. Porto due esempi. Prima di venire qua ho parlato con un mio amico professore universitario a Ca’ Foscari, che si occupa di nanotecnologie. Al Vega era stato istituito il Nanotec, o distretto delle Nanotecnologie, una realtà che aveva ricevuto una valanga di investimenti pubblici, guidata dalla Regione; vi lavoravano quattro università (di Padova, di Verona, Ca’ Foscari e IUAV), con quaranta ricercatori; hanno ricevuto una quantità di risorse pazzesca, e per una questione di affitti che la Regione a un certo punto non ha più pagato, questi quaranta ricercatori una mattina andando al lavoro si sono trovati le porte chiuse. Il Vega, cioè la struttura che gestisce gli spazi, non è più stata in grado di sostenere le attività che ospitava. Altro esempio: due settimane fa ero alla Torre che è stata riqualificata in via dell’Azoto, la Venice Heritage Tower, e un’attività importantissima come la FabLab, con sede al Vega, ha annunciato che si sarebbe spostata in centro a Mestre. Questi due esempi sono la dimostrazione del fallimento del Parco Scientifico e Tecnologico. Al Vega ci sono attività che potrebbero essere ovunque e che non producono sviluppo e ricerca a Porto Marghera, e le realtà che avrebbero potuto farlo hanno chiuso o se ne stanno andando.
Che cosa è diventato oggi il Vega? È una grandissima realtà immobiliare, peraltro con procedura di fallimento iniziata nel 2013, per la quale i fondatori hanno perso interesse; è un super-condominio dove si fatica a far quadrare i conti, perché tutti i servizi in comune hanno costi enormi e non si riesce a pagarli. È un luogo che genera tra le persone che lo frequentano quelle sensazioni ben descritte nel romanzo di Francesco Targhetta Le vite potenziali; tra l’altro quelle sensazioni le ho provate personalmente.
Le figure che hanno governato la nascita e la trasformazione nel tempo del Vega sono state in larga parte figure significative, a partire dal primo ingegnere, Gianni Cagnin, che veniva dall’Enichem e che l’ha seguito come fosse una sua creatura. Poi gli è succeduto Massimo Colomban, un imprenditore illuminato. C’è stato Luciano Rossi, altro imprenditore della Riviera del Brenta. Loro quel mestiere lo sapevano fare. Quello che è mancato completamente è stata la continuità, soprattutto da parte delle amministrazioni che avevano promosso quella iniziativa – Comune e Provincia di Venezia, Regione Veneto e da parte dell’insieme di imprese coinvolte nel progetto – ed è mancata anche una visione imprenditoriale illuminata rispettosa dello straordinario ecosistema lagunare che Marghera non ha mai avuto. Le grandi partecipazioni statali di Marghera sono una realtà molto diversa dall’imprenditoria del resto del Veneto: arrivavano qui, avevano un’area a disposizione, utilizzavano i soldi dello Stato e le risorse derivanti dalle vantaggiose trasformazioni degli idrocarburi, ma non c’è mai stata una vera imprenditoria legata al territorio.
Oggi a Marghera, accanto alle attività che speculano sulle caratteristiche infrastrutturali – al porto per esempio, vediamo montagne di container e camion che attraversano le strade, spesso in conflitto con il traffico urbano, movimentazione di merci e lavorazioni, che portano inquinamento e occupazione di aree preziose –, oppure i parchi del klinker, del carbone, cioè le merci sfuse che producono polveri, se andate in giro per la prima zona industriale le potete vedere.
Ma accanto a questo a Marghera ci sono ottocento aziende, e nella zona sud ci sono centinaia di capannoni e di attività che sono più vicini al modello veneto che a quello di Porto Marghera. Continua tuttavia a mancare una visione strategica generale, per esempio un soggetto istituzionale che dica a investitori non innovativi che propongono attività industriali non sostenibili: “non potete venire qui, a Marghera non servono attività che nessun altro vuole”. Pensiamo all’ultima idea dell’Eni, un inceneritore per fanghi derivanti dal trattamento delle fognature di tutto il Veneto; ricordo, a titolo di esempio, che qualche anno fa ci aveva già provato un altro imprenditore, sempre d’accordo con l’ENI, a mettere a Marghera l’inceneritore per centomila tonnellate di rifiuti tossico-nocivi. E non è stato l’unico, ogni tanto qualcuno s’inventa di portare in questo luogo quello che nessun territorio vuole… Sono solo le reazioni popolari che hanno bloccato più volte questi progetti, ma non c’è mai una amministrazione che dica una volta per tutte che l’idea di Porto Marghera per futuro è completamente diversa da quella del passato.
Il fallimento del Vega inizia quando è diventata pubblica la situazione dei 15 milioni di debito…, ancora non risanata. È apparso evidente il fallimento: ancora una volta non si è riusciti a costruire un futuro credibile: la Marghera del Novecento è chiaramente finita, quella del Duemila nessuno riesce a definirla. Il fallimento del Vega è il fallimento di una generazione politica e imprenditoriale.
Ora lavoro in una società dove l’età media è sotto i trent’anni. Questi giovani, come i trentacinquenni protagonisti del romanzo Le vite potenziali, non hanno la minima idea della condizione operaia e delle condizioni di vita nelle fabbriche di Porto Marghera. Manca a tutt’oggi la memoria di Marghera per le giovani generazioni e per quelle future. Non esistono luoghi – monumenti, spazi, contesti – in grado di spiegare la complessità e la ricchezza di Marghera: quanto sarebbe importante riconoscere cosa ha insegnato quel tipo di industria nel Novecento, sia in termini sociali, con le lotte operaie per il salario, la sicurezza, i diritti, sia in termini ambientali per effetto delle contaminazioni dell’aria, dell’acqua, dei suoli – devastazioni che andrebbero analizzate e descritte. Storie oggi troppo distanti per le nuove generazioni. Non so come potrebbero essere raccontate. Con l’arte forse: ecco, forse è questa la chiave. Per comprendere il passato e progettare il futuro serve una nuova chiave di lettura e di narrazione, ovviamente assieme a politiche lungimiranti e imprese rispettose dei luoghi che le ospitano.
Nota, di Giancarlo Ghigi
La liquidazione del Vega inizia nel 2013, più di dieci anni fa, quando il tribunale decreta per la parte pubblica un concordato fallimentare. All’epoca l’esposizione del Vega Park ammontava a otto milioni verso le banche e a quattro verso i fornitori di servizi. Iniziano così le prime cessioni, ma il mercato mostra molta freddezza. Probabilmente la crisi immobiliare del 2008 incide sui valori dell’area, il complesso appare difficile da sbrogliare per i contratti in essere, oppure più probabilmente si attendono ulteriori ribassi d’asta… Le prime aste vanno così deserte e il prezzo dei lotti (su spinta dei liquidatori) comincia a scendere.
Al fine di incoraggiare nuovi acquirenti il Comune di Venezia (che ha la piena proprietà su alcune aree) prova anche a prospettare una sorta di vendita all’incanto dell’intera parte pubblica dell’area, con un vincolo al solo rispetto dei contratti in essere, fino alla loro naturale scadenza. Il 3 marzo del 2024 si arriva così al quinto tentativo di cessione delle parti pubbliche del complesso, ma anche questo tentativo va sostanzialmente a vuoto, come quasi tutti i precedenti: negli anni si sono venduti solo il ristorante, il padiglione Antares, delle aree a parcheggio e la torre Hammon, il simbolo stesso dell’area. L’incasso complessivo di queste cessioni copre però appena un quinto dell’esposizione finanziaria cumulata dalla società. Al momento l’ordinaria gestione del Vega, ridotta ormai all’osso, matura un passivo di circa 80mila euro l’anno e le straordinarie manutenzioni si trasformano spesso in accordi sui fitti, che fanno scendere gli incassi successivi e rendono complessa la gestione amministrativa.
Quella che doveva essere (sulla carta) la punta avanzata della riqualificazione post-industriale del Nord-Est si è trasformata così in un agglomerato di cubature, un condominio a cui manca una regia d’insieme, un luogo in cui si è insediata ogni tipo di attività che trovasse conveniente la logistica dell’area o il prezzo della locazione. Talvolta gli stessi amministratori raccontano di aver dovuto affittare perfino i pochi uffici a loro disposizione migrando a rimbalzo tra i pochi vuoti del complesso. L’ultima risorsa che pare prospettarsi per il complesso – stando alla narrazione giornalistica – è quella di un cambio d’uso, ventilando tra le righe anche una trasformazione in alberghiero. L’unico dato di fatto, allo stato, è che le cordate di investitori internazionali al momento aspettano alla finestra.
Nota della redazione. Ezio Da Villa (Studio di ingegneria De Materia) è intervenuto all’incontro “Allunaggi al VEGA. Una presenza ai confini di Marghera” (15 marzo 2024, Ateneo degli Imperfetti, Marghera) organizzato dal gruppo aMarghera e dal Laboratorio Libertario. Hanno partecipato alla discussione Annapaola Passarini (Argo 16-Spazio aereo) e Francesco Targhetta, autore del romanzo Le vite potenziali (Mondadori, Milano 2018). Giancarlo Ghigi, di aMarghera, ha presentato e moderato l’incontro.
L’immagine di apertura è tratta dall’opuscolo Vega Parco Scientifico Tecnologico di Venezia S.c.a.r.l. PRESENTAZIONE GENERALE – Luglio 2015, disponibile online: https://www.vegapark.ve.it/wp-content/uploads/2017/03/03.07-Presentazione-generale-VEGA.pdf.
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