Viaggio nei dintorni cosmopoliti di Cremona. Lavoratori contro i licenziamenti. Bandiere dell’Unione Sindacale di Base. Chai caldo e Gutturnio frizzante. Scene da un macello occupato.
Il mio treno parte alle 8,10 da Venezia Santa Lucia. Alla stazione di Mestre un uomo composto con un giubbotto arancione e senza valigia si siede di fronte a me. Parla al telefono, mi pare in una lingua che nella mia testa poco formata sulle lingue non egemoniche identifico come di un vago “Est Europa”. La sua compostezza viene tradita da uno sguardo spaesato appena termina la sua chiamata, guarda il suo biglietto cartaceo, si guarda intorno e irrompe nel mio torpore: “Va a Milano questo?”. Il mio treno ha capolinea a Verona Porta Nuova, consulto lo schermo elettronico di fronte a noi per capire chi sta sbagliando: nessuno dei due. Dovrà cambiare, anche lui come me. A differenza sua, la mia meta è la provincia. Per arrivare a Cremona da Venezia la tratta con il regionale è controintuitiva: Verona-Brescia e poi giù di nuovo, verso l’Emilia, la condanna della provincia.
Il mio ultimo treno Brescia-Cremona parte a rilento, taglia un pezzo di bassa e con questa i paesi che stanno lungo la sua traiettoria. Alcune fermate paiono essere dentro al bar principale del paese, costeggiano case di un giallo scolorito dal tempo, qualche parcheggio e un puzzle di campi coltivati, punteggiati da fabbriche. Mi accorgo di stare guardando solo alla mia sinistra, ma quando mi giro alla destra tutto pare identico. È solo la vista del Torrazzo che si fa strada tra la nebbia a segnalarmi di essere vicina alla mia meta. Scendo e vedo Francesco, un compagno che a Cremona ci è nato e cresciuto e che dopo l’università ha scelto di tornarci. Cammina verso di me con una bici e una borsa di plastica piena di pentole che mi ricorda il motivo per cui oggi, 11 febbraio 2024, domenica di carnevale, mi trovo nella bassa lombarda.
Dal 17 ottobre 2023 una ventina di lavoratori, per lo più d’origine indiana del Punjab, sta occupando la fabbrica ProSus, un macello a qualche chilometro da Cremona che conta quattrocento dipendenti tra assunti diretti e lavoratori in appalto.
Nei mesi precedenti l’azienda aveva deciso di procedere a una ristrutturazione volta alla vendita dei suoi stabilimenti e mettersi sul mercato tagliando i posti di lavoro: un impianto con la stessa capacità produttiva ma meno personale e quindi meno costi. I primi colpiti sono i lavoratori delle cooperative: si rescindono i contratti con le varie ditte di appalto presenti in fabbrica, mentre gli assunti vengono messi in cassa integrazione.
Questa storia potrebbe finire così, una storia come tante nell’Italia che esternalizza e delocalizza, se non fosse che la strategia aziendale ormai diffusa di frammentare l’unità dei lavoratori differenziando le tipologie di contratto sembra non aver funzionato in questa sede. Gli assunti diretti della ProSus entrano nella fabbrica e si dicono determinati a non uscire finché la produzione non ripartirà con tutti i lavoratori presenti in azienda prima di ottobre: l’occupazione è in solidarietà ai lavoratori in appalto, con i quali hanno lavorato fianco a fianco per anni lungo la stessa linea e condiviso lotte che hanno portato coloro che ora occupano a essere internalizzati.
Domani ci sarà un pranzo di carnevale fuori dai cancelli della fabbrica organizzato da un gruppo di solidali della città per costruire un momento di convivialità con i lavoratori, che da quattro mesi sono in picchetto permanente per portare avanti la loro vertenza dentro e fuori la fabbrica, e le loro famiglie che, seppur da casa, vivono e sostengono la lotta.
La mattina successiva partiamo presto in direzione Vescovato, un paese di tremila abitanti alle porte di Cremona dove si trova il macello ProSus. Uscendo dalla città, la campagna arriva prima del previsto ai miei occhi o forse ciò che vedo è solo una continuazione della città, un’appendice che vive in funzione di questa. Non mi so dare risposte, per me che ho sempre vissuto in città metropolitane è difficile orientarmi in ciò che ho intorno, mi accorgo di non avere le parole per descrivere ciò che vedo. Un paese, una chiesa e poi distese di campi, interrotti da capannoni e silos ogni qui e altrove. È solo quando giriamo l’ultima curva della provinciale prima di Vescovato e scorgo le bandiere dell’Unione Sindacale di Base che capisco di essere arrivata.
La strada divide la fabbrica da una cascina. In mezzo, tende e gazebi compongono quello che ha tutta l’aria di essere un accampamento costruito per durare nel tempo. È il presidio permanente fuori dai cancelli della fabbrica. La tenda principale è letteralmente attaccata ai cancelli di questa: non è una struttura chiusa, una tenda da campeggio come le altre disseminate nello spiazzo antistante i cancelli della fabbrica ma piuttosto un’opera di architettura e ingegneria operaia. Intorno a un gazebo ormai totalmente inglobato nel resto della struttura è sorta una stanza le cui pareti laterali sono composte da teli cerati, travi di legno e pezzi di mobilio che si prestavano allo scopo; sul fondo dell’ambiente si distinguono le sbarre della recinzione cui tutta la struttura è legata. Assi e ceppi di legno, teli di plastica per proteggere dalla pioggia che in questo periodo cade battente e un manico di scopa compongono un mosaico annerito sul soffitto: nella tenda è infatti collocata la stufa a legna, che offre un po’ di conforto dal freddo di questi mesi invernali e sul quale viene fatta bollire l’acqua per preparare l’eterno chai.
Appena scendiamo dalla macchina, qualcuno esce dalla tenda principale e ci aiuta a portare i fornelli e le pentole che serviranno per preparare il pranzo, mentre i lavoratori occupanti si avvicinano ai cancelli per salutare. Ci incontriamo al crocevia, ai tornelli che fino a quattro mesi fa scandivano le loro giornate di vita e lavoro. Comincio a parlare con uno di loro, B.: indossa ancora la veste bianca che utilizzava nelle celle frigorifere della fabbrica. Ci stringiamo la mano tra le sbarre del cancello e quando gli chiedo come va mi risponde che la notte è stata fredda dentro, gli hanno tolto l’elettricità per riscaldarsi, ora però va meglio, la mattina si è portata via un po’ di gelo. B. è in Italia dal 2010 e lavora in ProSus dal 2013, ha una figlia di 10 mesi e ha vissuto con lei solo 6 di questi. Appena esce di qui, vorrebbe portarla a vedere il Punjab. Mi dice che qui non è male, il paese non è male, è vicino alla città ma c’è il silenzio che la città non ha. Sembra affezionato al posto in cui abita, ci sono molti suoi connazionali, ma quando gli domando – forse ingenuamente – perché ha scelto l’Italia, mi dice che non ha scelto, qui c’era il lavoro ed è venuto. L’India gli manca, lì c’è più sole, i suoi ricordi e il resto della famiglia che ha lasciato. Quando gli chiedo quando ci tornerà, assertivo mi risponde: “Quando vinciamo qui. Ora che abbiamo iniziato, continuiamo fino alla fine. Fino che tutti i fratelli non sono assunti e ricominciamo a lavorare insieme”. La parola fratelli tornerà spesso nei loro discorsi, mi accorgerò che non ha un connotato religioso o di appartenenza alla stessa comunità nazionale, ma piuttosto di comunione di esperienze e soprattutto di lotte. Se a occupare sono tutti lavoratori che provengono dall’India; i lavoratori della cooperativa, per i quali è in corso l’occupazione, hanno anche altre provenienze geografiche.
Sento qualcuno che mi chiama dalle tende: è pronto il chai. Nel corso della giornata capirò che a quel presidio ci si premura sempre che nessuno rimanga senza un bicchiere. Ci sediamo intorno alla stufa della tenda principale dove c’è sempre qualcuno a presidiarla. “Il fuoco non si deve spegnere mai” mi dice il guardiano di turno alla fiamma, dopo averle soffiato sopra con un lungo tubo di metallo.
Mentre ci scaldiamo, sentiamo arrivare qualche macchina, è parte della comunità sikh di Mantova venuta in vista per la giornata a sentire come stessero i lavoratori. Portano altro latte per il chai e qualche cocacola per i turni della notte. Due degli occupanti infatti restano svegli a turno a vegliare sulla fabbrica arrampicati sulle giostre, i macchinari industriali in cui ogni giorno appendevano mezzane di maiali. Da lassù, sarebbe più difficile trascinarli fuori ponendo fine alla loro vertenza.
Di fronte all’unità che anima questo presidio, c’è la disgregazione del territorio prossimo che, oltre a essere silente, pare ostinatamente sordo. Di fronte alla fabbrica c’è una cascina, è solo una strada a separarle eppure sembrano pezzi di spazio contigui che non dialogano, storie diverse stratificate nel tempo che condividono uno stesso luogo senza abitarlo congiuntamente. C’è movimento, cani che abbaiano e un silenzioso via vai, dalla stalla esce a metà giornata un signore a cavallo senza mai guardare alla sua sinistra. Chiediamo ai lavoratori: “Ma chi c’è lì?”, non lo sanno, ogni tanto vedono qualcuno uscire, entrare, arrivare, ma nessuno si è mai sporto dall’altra parte della strada a vedere cosa succedeva dietro il suo cancello.
Continuiamo a parlare tra noi alternando discorsi tra bicchieri di chai e Gutturnio frizzante portato dalla città finché il sole comincia a scendere dietro la fabbrica, spezzato dal campanile di Pieve Delmona, il paese che precede Vescovato arrivando da Cremona.
Prima di rientrare verso la città, facciamo un giro a piedi tra le campagne circostanti: è vero, c’è silenzio. Uno di noi prende il telefono: è Lungo la strada di Milva a riaccompagnarci verso il presidio dove il fuoco ancora non si è spento.
Due giorni dopo, l’occupazione all’interno di ProSus verrà sgomberata.
I lavoratori ci rassicurano che la vertenza non è finita, il presidio continua e il fuoco ai cancelli di via Mantova non si è spento.
Lungo la strada / che mi porterà lontano / penso alle lotte disperate e sogno / una vicina libertà // Vado cantando / fino a che avrò fiato in cuore / ed il compagno che mi ascolta / canti, canti con me la libertà
Nota della redazione. Questo articolo nasce dagli incontri del Laboratorio di documentazione e storia del tempo presente che la redazione di altrochemestre.it ha curato nell’ambito del corso di Storia sociale tenuto da Alessandro Casellato (Università Ca’ Foscari, Venezia, febbraio-marzo 2024).
Secondo dati dichiarati nel 2015 dalla Cooperativa Produttori Suini (ProSus), proprietaria dello stabilimento di macellazione di Vescovato (Cremona), il macello impiegava oltre 400 addetti, per una macellazione di circa 800mila capi annuali. Si veda l’opuscolo “Company Profile” pubblicato per i trent’anni di attività della cooperativa (https://www.prosus.it/images/cataloghi/CompanyProfile_ITA.pdf). Nel gennaio 2024 il presidente della cooperativa ha fornito le cifre seguenti in un comunicato ufficiale: capacità del macello circa 600mila capi annuali; 184 dipendenti diretti (di cui 150 in cassa integrazione).
L’immagine di apertura è un disegno di Zerocalcare per la locandina che pubblicizzava un’iniziativa di sostegno agli operai organizzata dal sindacato USB il 28 febbraio 2024 (https://www.usb.it/leggi-notizia/prosus-28-febbraio-iniziativa-a-cremona-con-zerocalcare-dopo-lo-sgombero-della-fabbrica-la-lotta-non-si-ferma-1541.html).
Ringraziamo Ernest Chernetskyy (Ernosphoto) e Salvatore Gucciardo che ci hanno permesso di usare le loro foto.
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