Empirismo, sinistra, storiografia, critica delle ideologie. Appunti scritti dopo discussioni sul progetto di “Altrochemestre” [un articolo del 1994]
Nota. Uscito sotto il titolo Sulla utilità di descrivere ciò che si vede, in “Altrochemestre”, 2, 1994, pp. 22-25. Una nota sul numero 3 (terza di copertina) avvisava che l’articolo era stato ripubblicato sulla rivista “La terra vista dalla luna” “senza citarne la fonte”. Si ripubblica ora su altrochemestre.it per gentile concessione dell’Autore. Sono stati corretti alcuni refusi.
1. Credo che una “cura” di empirismo, un periodico riesame dell’ambiente nel quale ci muoviamo, possa fare solo bene alla nostra cultura. Un progetto di conoscenza empirica, che non voli troppo nel cielo delle idee, ma si tenga a ridosso delle cose (luoghi, tempi reali di pensieri e atti, oggetti fisici percepibili) è un igienico correttivo per una cultura come quella italiana, che tende sempre a forme contaminate di idealismo e di retorica. In Italia, da almeno dieci anni in qua, esiste una specie di mania filosofica che ha poco a che fare con una vera riflessione filosofica. È la mania di correre dall’Inizio alla Fine, senza soffermarsi dentro la lunga e complicata serie di strade e di sentieri che stanno fra l’alfa e l’omega.
Una cultura che corre alle Grandi Sintesi può anche avere effetti spettacolari, risultare suggestiva, persino ipnotica. Ma in questo mi pare che Wittgenstein avesse ragione: molti cosiddetti problemi filosofici sono falsi problemi, problemi che ereditiamo per inerzia dal linguaggio gergale che ce li trasmette. Bisognerebbe essere capaci di riformulare ogni problema filosofico nel linguaggio quotidiano. Ricondurre le idee alle situazioni in cui hanno un senso concreto per qualcuno.
Da questo punto di vista scegliere un’ottica – diciamo così – empiristica, vuol dire vedere e far vedere le ideologie come ideologie, cioè come visioni generali che stanno in un rapporto ogni volta mutevole con il punto di vista che come singoli abbiamo in un certo luogo e in un certo tempo. È vero (per citare John Locke, padre dell’empirismo) che possiamo anche costruire delle idee complesse, se ci servono per capire qualcosa di reale: ma non dobbiamo trascurare e far marcire il materiale mentale da costruzione, cioè le idee semplici, quelle che ci formiamo come individui nel corso della nostra vita quotidiana. Altrimenti, sarebbe come pretendere di fare una buona torta usando della farina stantia e delle uova marce.
2. La critica delle ideologie è un’attività non secondaria. Non è un lusso. Ogni volta che usiamo parole, idee, o che ci riferiamo a una tradizione di pensiero, dobbiamo sapere con quali attrezzi e utensili stiamo lavorando. Critica delle ideologie è anzitutto critica del linguaggio, degli stili di pensiero, del modo in cui, dentro un genere di discorso o un altro, diamo forma a quello che sappiamo o crediamo di sapere.
Molti anni fa, intorno alla metà degli anni Settanta, ricordo che mi veniva continuamente in testa questo pensiero: “Si dovrebbero sostituire tutti i termini astratti e generali con descrizioni. Sostituire i concetti, con i quali facciamo acrobazie, con accurate descrizioni delle cose che realmente facciamo, dei luoghi e degli ambienti in cui viviamo e lavoriamo”.
Già allora la sinistra era malata di filosofia, di terminologie teoriche. Vedeva quelle, manovrava quelle, invece di fissare pazientemente lo sguardo sul mondo immediatamente circostante. Certo, bisognava rallentare i tempi di percezione e di costruzione delle idee. E per questo rallentamento, chi fa politica non ha e non avrà mai tempo. La mentalità politica lavora per definizione in gran fretta: il suo solo problema è stare a galla giorno per giorno. Il politico vive sempre in una specie di situazione di emergenza. Non è vero che la politica italiana è verbalistica e troppo rallentata dalla discussione: si tratta di false discussioni che sono il surrogato delle azioni, che sono un modo di agire. Il parlare dei politici è un modo di agire in negativo, un metodo pratico per tenere a bada la realtà.
Non è che i politici non facciano niente o facciano poco. Fanno, eccome. Ma non fanno ciò che è utile ai cittadini. Fanno ciò che rafforza e aumenta il loro potere, ecco tutto.
3. Noi che non siamo dei politici abbiamo solo un modo per criticare il potere: confrontare ancora una volta parole e cose, quello che si dice e quello che si fa. È un vecchio metodo, sempre efficace. Descrivere accuratamente che cosa fa colui che ha detto una certa cosa. Se volete, questo è sempre stato il metodo della letteratura, il modo di criticare la funzione di copertura e di ubriacatura che hanno le idee, le filosofie, le ideologie. A volte, come si sa, gli effetti del confronto sono satirici. Ma il fine non deve essere la satira. L’effetto satirico dovrebbe essere il semplice risultato non voluto che emerge dal confronto fra discorsi e comportamenti.
4. Per esempio oggi riconoscersi nella sinistra può essere qualcosa di meccanico, un’eredità che maschera problemi reali. Dico questo perché la sinistra italiana di oggi (i suoi leader, le sue idee correnti e dominanti, i suoi gusti e il suo stile di vita) non mi piace. Pensare e parlare fin dall’inizio all’interno del cerchio della sinistra e per un pubblico di sinistra è limitativo. Questa destra credo che sia nata anche dalla cecità e stupidità (supponenza sciocca) della sinistra e della sua cultura. Questa sinistra meritava di perdere: credeva di essere eterna, di poter vivere elegantemente di rendita, era sfigurata dai suoi snobismi (lo è tuttora). Era una sinistra a cui mancava un po’ di empirismo: non sapeva più, infatti, che cos’era diventata la società italiana. Una sinistra guidata da gente che non sa guardare in faccia neppure i propri vicini di casa, la gente per strada: che non sa guardare in faccia neppure la propria faccia. Gli intellettuali di sinistra credono per esempio di essere ancora tremendamente attraenti e simpatici, eleganti e pieni di fascino: invece non è più vero. La maggior parte degli italiani ormai prova una precisa antipatia per il ceto colto e dirigente della sinistra. Questo in parte è un male (è volgarità), e in parte è un bene (la volgarità della cultura di sinistra spesso è solo un po’ più “fine” e sofisticata, ma è quasi più penosa).
5. La narrativa, e quindi anche la storiografia, è o dovrebbe essere la più empirica tra le forme di sapere e di discorso. Raccontare come si sono svolti veramente i fatti, come è realmente accaduto qualcosa, come è potuto succedere che qualcuno era in un modo ed è diventato un altro, tutto questo è quanto di più empirico possiamo fare. Una storiografia che non fa questo, e che non è consapevole della propria costituzionale vocazione all’empirismo, può anche essere brillante: ma a lungo andare non può che rivelarsi pericolosa. Lo storiografo, come ogni altro narratore, non dovrebbe mai essere troppo affascinato e condizionato da grandi idee, da idee generali. O comunque non dovrebbe mettere in contatto e confronto delle oneste e accurate sequenze narrative e descrittive con le idee e le sintesi generali.
6. È sempre utile descrivere e “raccontare” i documenti che si usano, il modo in cui li si usano. È anche interessante che uno storico ci racconti come è nato in lui il problema o il desiderio di fare una particolare indagine. Che cosa voleva fare all’inizio, e che cosa ha fatto. Si tratta di una forma elementare di autocoscienza, di trasparenza metodologica. Mi pare che gli intellettuali italiani, rispetto a quelli inglesi, francesi, americani, siano troppo deboli in autobiografia. Spesso non sanno chi sono, da dove vengono, e non vogliono neppure saperlo. Si mettono delle maschere e dopo un po’ le credono volti veri.
7. La storia delle città è, secondo me, una delle cose più affascinanti. E potrebbe anche essere un modo per allargare il pubblico della storiografia. Raccontare agli abitanti di un luogo che cosa è successo in quel luogo e come si è “prodotto” quel luogo nel corso del tempo, attira molto. Io comincerei col descrivere accuratamente l’aspetto fisico delle città come si presenta oggi. I problemi storici nascerebbero dall’occhio che vede e dalle necessità della descrizione.
8. Se non sbaglio, è proprio questa l’idea della vostra rivista: raccontare eventualmente (inevitabilmente) delle storie, partendo da descrizioni di quello che si vede. Quello che vediamo è l’immagine “sincronica” di una serie di eventi accaduti. La storia è visibile. Per essere un po’ più sottili, si potrebbe aggiungere: e ciò che della storia è ormai invisibile è dovuto a una cancellazione.
Che cosa è l’Italia visibile di oggi se non una furiosa cancellazione di quello che era fino a venti o trent’anni fa? Eppure (non credo che sia solo un paradosso) anche ciò che è stato attivamente cancellato, in realtà si vede. Si vedono le abrasioni, le dissimmetrie, le cicatrici, i buchi, i vuoti (riempiti e no).
C’è poi un’altra cosa che mi interessa nel progetto della vostra rivista: è l’attenzione al linguaggio, ai modi in cui pubblicamente, da politici, esperti, ecc. il linguaggio stesso viene usato per impastare i problemi reali fino a sommergerli, fino a renderli irriconoscibili: puri fantasmi, pezzi di un gioco combinatorio manovrabile (e formulabile) solo da una precisa categoria di persone che si presentano come competenti, esperti, autorevoli. Più competenti, esperte e autorevoli di chi vive tutti i giorni, da anni, in un certo luogo.
Perciò non è affatto una cosa da niente intestardirsi su questioni di linguaggio, su immagini e rappresentazioni: se non si fa attenzione a questo livello, poi può diventare troppo tardi. Il potere è sempre stato molto attento alla politica del linguaggio e delle immagini. Se ci si vuole opporre, non si deve partire dallo stesso linguaggio e dalle stesse immagini che usano gli uomini del potere.
Le arti hanno sempre avuto questa funzione di igiene, di cura, di ecologia delle forme di esperienza: prima di essere “sublimazione” di quello che viviamo (e anche quando sembra essere solo questo) la (vera, o migliore) arte è rivelazione di realtà. Tutti i mezzi sono buoni, anche la deformazione apparente, se il fine è quello di rivelare quello che credevamo di sapere e invece non sapevamo più. Molte delle poetiche novecentesche parlano proprio di questo: dei modi per “straniare” la realtà, per far saltare gli automatismi della nostra percezione. Quello che abbiamo intorno tutti i giorni ci sembra noto, fin troppo noto. E invece ci è diventato ignoto. Si tratta di scoprire i misteri dell’ovvio.
9. Tutti gli Stati nazionali moderni si sono posti il problema dell’“educazione popolare”. Era infatti necessario controllare le masse dal di dentro: non solo con la polizia e i tribunali. Ma, se possibile, ancora prima, con la scuola, con i libri e i giornali. Del resto, la stessa pubblicità non è che una forma di “educazione popolare”: fornisce immagini attraenti della vita attraverso le immagini delle merci. Le merci diventano nella pubblicità oggetti magici, mediatori per ottenere la gioia, talismani della felicità.
E gran parte dell’arte moderna può essere letta come una lotta disperata contro la “politica dell’esperienza” perseguita dai diversi poteri ufficiali e pubblici. Una lotta impari: dato che l’alternativa per gli artisti è stata fra il tentativo di sottrarsi interamente allo Stato e al Mercato (tentativo che ha portato all’astrazione e all’esoterismo) e il tentativo opposto di entrare nel gioco cercando di piegarlo almeno in parte ai propri fini (agire nel sistema formativo o nei media di massa: in questo caso il rischio è dimenticare lo scopo nello sforzo di tenere il campo).
10. Non so se c’è soluzione. Ma forse la sola via è una certa astuzia nell’uso “improprio” dei mezzi di comunicazione che di volta in volta ci si offrono. E comunque è meglio restare un po’ distante dai veri centri del potere: lì infatti si è più accerchiati e controllati. Illudersi di cambiare le cose dopo aver scalato la gerarchia (perché dall’alto, dal vertice è più facile) ecco, questa è la grande illusione.
Dall’alto si possono fare soltanto quelle cose che si vedono dall’alto. Il culto della Grande Sintesi è pericoloso in pratica non meno che in teoria. A volte i cosiddetti grandi problemi sono niente altro che la somma di tanti piccoli problemi (o meglio problemi gravi, ma circoscritti). I grandi problemi sono spesso delle finzioni terminologiche, degli idoli concettuali creati dal linguaggio e dall’ottica della Politica. Per diffidare in modo determinato di questi idoli terminologici è utile descrivere e raccontare ciò che, come si diceva una volta, “cade sotto i nostri sensi”.
Ormai è chiaro, e non ho nessuna difficoltà a confessarlo: a ogni passo da gigante che il Progresso compie in avanti, io provo un desiderio acuto di fare due passi umani indietro. Non desidero affatto che il genere umano superi i suoi limiti biologici e antropologici finora noti attraverso lo sviluppo della tecnologia. Non appena ho saputo che la memoria dei computer poteva contenere centinaia di libri, il mio primo impulso è stato opposto: imparare a memoria lunghi brani dei libri che leggevo. E questo implica una selezione fortissima, dato che non posso sperare di imparare a memoria troppe cose. Nella memoria extraumana dei computer invece potranno essere messe le peggiori cose, così, non perché devono veramente essere lette da qualcuno, ma solo perché si fa tutto ciò che la tecnologia permette di fare, anche se non c’è uno scopo. Si sviluppano i mezzi, in attesa di trovare uno scopo. Siete sicuri poi che chi troverà lo scopo sarà di nostro gradimento?
11. Stiamo diventando animali senza orientamento, senza naso, senza antenne. Crediamo di poterci spostare a piacere con enorme rapidità da un posto all’altro senza che questo intacchi il nostro senso di realtà. Invece avviene proprio che il senso di realtà sia in via di deperimento. Cominciamo a fare fatica a capire ciò che è realmente reale e ciò che ci viene messo davanti come tale. la realtà è sempre di più una costruzione artificiale. E questo può sembrare ancora abbastanza ovvio. Il fatto nuovo è che la realtà-ambiente nella quale siamo immersi non è più tanto, come mezzo secolo fa, il prodotto del lavoro, ma è il risultato della produzione delle immagini. Non siamo più veramente convinti che l’ambiente sia reale e non virtuale. Perché allora occuparsene? Forse, dice il nostro inconscio, se spengo il telecomando questa piazza, questa periferia, queste facce che ho davanti spariscono…! Ho l’impressione che il Potere (non è un mito, esiste!) abbia bisogno di addestrare sempre di più questa labilità: il nostro rapporto fisico e mentale con ciò che esiste deve diventare scorrevole, senza attriti. Deve cioè essere percepito come “libero” e possibile, virtuale e opzionale, non necessario e cogente. Così, i caratteri di necessità e cogenza che erano i caratteri di qualunque fenomeno reale, si indeboliscono, si fanno sbiaditi, fluttuano.
La realtà diventa cioè sempre più irreale. E gli studiosi della mente e della psiche umana sanno bene quanto fragile, labile e fluttuante diventa la personalità di individui addestrati in questo modo. I mass media stanno prendendo tutto lo spazio in cui, fino a un paio di generazioni fa, si realizzava la mediazione con l’ambiente. Il nostro corpo scivola via sull’ambiente, non lo percepisce più come un’entità consistente, qualcosa che esiste stabilmente fuori di noi ed è regolata da leggi proprie, modificabili solo con tempo e fatica. I mass media stanno sostituendo la mediazione operata un tempo dal lavoro fisico e dalle attività artistiche. Il lavoro fisico, che richiede una precisa ambientazione fisica nel tempo e nello spazio, diventa sempre meno importante nelle nostre società. E anche le tecniche artistiche sono minacciate dai computer: che rendono tutto “più facile” e più rapido, promettono di saltare i lenti processi artigianali, manuali, come suonare un violino, un piano forte, recitare in teatro, dipingere con spatole e pennelli, o magari con le dita.
12. I giornali, quando la loro diffusione era solo alle origini, sembravano già una mostruosa forma di falsificazione della realtà. La letteratura e la filosofia hanno polemizzato a lungo contro l’influenza dei giornali e la mentalità giornalistica: da Kierkegaard, Leopardi, Baudelaire, fino a Kraus, Heidegger, Orwell, gli autori più diversi hanno sentito il giornalismo come una grave minaccia, un temibilissimo strumento di “copertura” della realtà attraverso un linguaggio speciale, un gergo che trita i dati reali e ce li restituisce in forma cremosa, centrifugata, irriconoscibile. E, ciò che è peggio, come se la Realtà fosse quella che compare sulle prime pagine. Era l’idea dell’Attualità e di ciò che fa notizia come surrogato continuo, sostituto della realtà di cui ognuno, per conto proprio, poteva fare esperienza. Una specie di grande fabbrica di etichette da appiccicare agli eventi prima di aver cercato di capire come sono fatti questi eventi e perché avvengono.
Oggi però i giornali stessi sono in pericolo. E, credo, più in pericolo dei libri. Rischiano di sparire, di essere soppiantati da tecnologie comunicative più efficienti, più rapide e funzionali. Si parla da tempo di giornali elettronici e simili. Il fatto è che per sapere che cosa è successo oggi nel mondo, la lettura è un procedimento troppo lento e dispendioso. Perché non leggere venti pagine di un ottimo libro invece che passare un’ora con un giornale in mano dal quale veniamo a sapere poco più di quello che abbiamo sentito la mattina alla radio? Molti giornalisti hanno sempre creduto di essere “più avanti” di chi legge e scrive libri o periodici culturali. Adesso proprio i giornalisti dei quotidiani, invece, devono scoprire di essere legati a una tecnologia che sta diventando rapidamente antiquata. Credo che fra dieci anni un giornale apparirà molto più antiquato di un libro. E tutto sommato è giusto che l’informazione giorno per giorno non passi per la carta stampata. Meglio stampare discorsi più durevoli, più pensati e lavorati più a lungo, con cura maggiore.
Io ho una frequente nausea dei giornali. Non riesco ancora a capire che razza di oggetto culturale sono. Forse anche perché non sono un “divoratore” di carta stampata. Così, se mi metto a leggere un giornale con attenzione, tendo a leggerlo come un libro, e allora vorrei ritagliare, collezionare, catalogare troppi articoli: la semplice lettura del giornale mi si trasforma in un’attività troppo impegnativa. Oppure, viceversa, trovo ogni articolo troppo insoddisfacente, effimero, mal pensato e mal scritto, fondato su rimasugli di altre notizie che volano nei media; e allora butto via tutti quei fogli ingombranti e sento il bisogno di un libro, di un testo elaborato con maggiore competenza e attenzione da qualcuno che abbia studiato a lungo e conosca a fondo, magari di persona, le cose di cui parla.
A volte penso: meglio sentire un po’ di notizie e commenti alla radio, dalle sette alle otto, e poi uscire di casa, guardare le cose con i propri occhi, ricavare “notizie” da quello che si vede in giro…
13. È quindi vero, credo, che i problemi “gnoseologici” non possono mai essere dati per risolti. La nostra nozione di realtà va periodicamente riesaminata, passata al setaccio. Con quali parole ci orientiamo, con quali immagini formiamo i nostri giudizi e pregiudizi?
Della letteratura (non di tutta, perché ormai che molti “sanno scrivere”, di cattiva letteratura ce n’è in giro troppa), della letteratura apprezzo una certa lentezza: sia nell’elaborazione che nell’assorbimento. La letteratura, per quanto di consumo, non si consuma facilmente come la televisione. Dubito anzi della stessa definizione di “letteratura di consumo”: mi sembra una contraddizione in termini. Perché stampare su carta e rilegare dei messaggi scritti che, una volta letti, possiamo buttare via? Quello che si stampa e si rilega dovrebbe essere non solo letto, ma riletto.
E questo vale anche per riviste e periodici. Che mi piacciono di più se non hanno l’aria di voler essere veloci come gli altri media, e invece sono consapevoli della loro lunga tradizione (una tradizione che risale al XVIII secolo). Il giornalismo dei periodici di questo tipo mi piace. Facendo queste riviste siamo ancora un po’ contemporanei di Addison e Verri.
Lascia un commento