Testo dell’intervento tenuto alla presentazione di Voci da Grafica Veneta. Vite e lavoro nel capitalismo contemporaneo, di Silvia Ruggeri, con un saggio di Livio Vanzetto, Prefazione di Alfiero Boschiero e Alessandro Casellato (Istresco, Treviso 2023). Biblioteca Ca’ Foscari Zattere, 14 dicembre 2023.
1. Il libro Voci da Grafica Veneta. Vite e lavoro nel capitalismo contemporaneo, di Silvia Ruggeri, con un saggio di Livio Vanzetto, Prefazione di Alfiero Boschiero e Alessandro Casellato (Istresco, 2023) descrive e analizza alcune vicende capitate nella fabbrica Grafica Veneta a Trebaseleghe dal 2020 al 2022, intervistando operai e abitanti, mettendo a fuoco gli esiti di eventi tuttora in corso e provando a storicizzarli[1].
Ecco in breve le vicende. Nel maggio 2020 un uomo pakistano viene trovato a Piove di Sacco, in provincia di Padova, con le mani legati e segni di violenza sul corpo; nella stessa giornata altri suoi connazionali si presentano al Pronto soccorso dell’ospedale di Padova in condizioni simili. Tutti lavoravano dentro Grafica Veneta, attraverso l’appalto di una ditta trentina gestita da pakistani. Si scopre che il pestaggio è opera dei padroni della ditta come rappresaglia verso chi aveva aperto una vertenza sindacale dopo essere stato licenziato senza preavviso. Nel corso di un anno la magistratura svela un sistema di caporalato con turni da 12 ore sette giorni su sette per 600 euro al mese e un affitto da pagare per una casa di proprietà della ditta; due persone ai vertici aziendali di Grafica Veneta vengono identificati come responsabili del caporalato in quanto ne erano a conoscenza. In seguito ad alcune dichiarazioni del presidente di Grafica Veneta (“Loro sono un po’ così, pulizia e bellezza non è che facciano parte della loro cultura”), Fiom e Cgil di Padova e Asgi [Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione] intentano una causa contro Grafica Veneta per discriminazione razziale. Si apre una trattativa sindacale presso la Prefettura di Padova. Nel frattempo, all’inizio del 2022 il padrone di Grafica Veneta s’incontra con l’Imam della moschea del quartiere Arcella a Padova, e in questa sede si accorda per assumere 19 degli operai pakistani coinvolti, la maggior parte dei quali iscritta all’Adl Cobas; gli operai iscritti all’Adl Cobas mandano una mail con la disdetta dell’iscrizione e la revoca al sindacato del mandato a proseguire e concludere le trattative. I dipendenti in appalto vengono assunti a tempo indeterminato; Cgil e Fiom ritirano la causa che avevano intentato. La Procura di Padova chiede l’archiviazione per i vertici di Grafica Veneta, che patteggiano, mentre rinvia a giudizio i dirigenti pakistani della ditta trentina per rapina, sequestro di persona, violenza privata e lesioni personali.
L’esito delle vicende fa pensare che l’unica cosa che non andava era il reclutamento, e non l’organizzazione del lavoro: in questo modo, dopo l’assunzione diretta dei lavoratori in cambio della disdetta della loro iscrizione al sindacato, Grafica Veneta esce dalla scena, e il rapporto di lavoro ridiventa un affare privato.
In secondo luogo la chiusura della storia fa del caporalato un episodio sporadico avvenuto alla Grafica Veneta, e impedisce di vedere che si tratta invece di una caratteristica del processo lavorativo nelle grandi fabbriche. Alla Fincantieri di Marghera infatti il lavoro è organizzato attraverso intermediari e aziende in appalto, secondo linee etniche: le ditte che controllano i dipendenti bangladesi lo fanno anche fuori del lavoro, dentro una comunità legata alle moschee e ai paesi di origine[2]. Detto in altre parole, il finale delle vicende avvenute a Grafica Veneta è un richiamo al silenzio, un invito a non indagare ulteriormente.
Silvia Ruggeri non accetta, e nemmeno noi che presentiamo il suo libro. Alfiero Boschiero, Gilda Zazzara e naturalmente l’autrice entrano nel merito delle vicende, delle circostanze con cui è stata condotta la ricerca e dei modi con cui è stato accolto il libro. Io invece cercherò di riflettere sugli schemi mentali che presiedono all’angolo di osservazione da cui guardiamo a Trebaseleghe.
2. Normalmente il lavoro non si vede, i rapporti sociali nei luoghi di lavoro non si vedono. Fin dalle origini del sistema industriale i regolamenti di fabbrica si ispirano ai dispositivi disciplinari in atto nelle istituzioni totali, sottratte allo sguardo, come carceri, caserme, manicomi e case di lavoro: e nel lavoro libero rimangono persistenze del lavoro servile, sempre pronte a riemergere e ad allargarsi. Il lavoro diventa visibile grazie alla conflittualità che si sviluppa nei luoghi del lavoro e di lì si allarga alla società, con i modi, i riti e simboli che il movimento operaio ha saputo creare. Perciò non c’è niente di strano nel fatto di esserci accorti solo da poco tempo di Grafica Veneta: non so se Silvia Ruggeri avrebbe preso il treno da Venezia a Trebaseleghe per dirci cose che non avremmo conosciuto se qualche operaio pakistano degli appalti non si fosse ribellato.
Però c’è un altro motivo che ci ha impedito fin qui di guardare alla presenza di grandi industrie a Trebaseleghe. In uno scritto su Il lavoro s-perduto tra Santa Maria di Sala e Trebaseleghe[3][https://www.officinaprimomaggio.eu/il-lavoro-s-perduto-tra-santa-maria-di-sala-e-trebaseleghe/], Alfiero Boschiero parla di un capitalismo manifatturiero “nell’ovest dell’entroterra Veneziano”, evocando il linguaggio della frontiera. Nella descrizione di una sua visita in macchina, Boschiero parte da Mestre, prende la strada Castellana e si avvia a esplorare quello che chiama il “cuore geografico della regione”, cercando le tracce industriali “in un’area tradizionalmente agricola”. Il territorio inizia da Mestre (Boschiero scrive Mestre/Venezia), si estende nella pianura fino alla cerchia delle montagne, che Boschiero chiama Dolomiti e che immagina guardando i corsi di risorgiva. Le risorgive non esisterebbero senza la canalizzazione e le derivazioni artificiale dal fiume Piave costruite nei secoli, ma noi amiamo immaginarle come dono delle divinità montane alle popolazioni della pianura: e per questo noi abitanti di pianura ringraziamo le montagne compiendo giri ad anello rituali attorno alle cime, nella bella stagione.
Lo sguardo di chi si muove in macchina da Mestre è condiviso anche da chi parte da Venezia in treno, come fa Silvia Ruggeri. Quello che lei vede dal finestrino è in sequenza: la laguna, il porto industriale di Marghera, il centro urbano di Mestre, e poi “all’improvviso, la campagna”, il “profondo Veneto” (p. 23). Essendo “europea e bergamasca”, tra le altre “identità” che lei stessa dice di avere (tra queste non c’è quella “italiana”, p. 17), la campagna per lei comincia subito dopo Mestre, prima cioè che per Boschiero, che invece inserisce in questa zona il bacino di reclutamento della manodopera che ha lavorato per quasi un secolo nelle fabbriche di Porto Marghera.
Mappe e segni di spaesamento non cambiano se parti da Treviso. Nel romanzo Le vite potenziali di Francesco Targhetta, uno dei personaggi parte da Treviso in macchina e, una volta passato Paese, che da Trebaseleghe dista una quindicina di chilometri, sente di addentrarsi in “una campagna senza nome dove tutti passavano e non c’era niente”[4].
Edda Merlo ex insegnante di Trebaseleghe, una donna intervistata che viene presentata come “laica e di sinistra” (p. 69) e Maurizio Carraro, anche lui di Trebaseleghe ed ex operaio di Marghera, dicono che tra Trebaseleghe, Scorzè e Noale, in direzione di Venezia, c’è “una barriera”, al di là della quale c’è un territorio educato alla politica dalle lotte operaie di Porto Marghera (p. 82). Nelle loro parole si sente il rammarico di vivere oltre la barriera. Qualsiasi sentimento di appartenenza possa provare, chi vive a Trebaseleghe sente di far parte del “profondo Veneto di ascendenza contadina”, come scrive Livio Vanzetto nella Postfazione (p. 136). Vanzetto sa che stiamo parlando di un mondo scomparso da molto tempo, tanto che a un certo punto usa il termine “ex profondo Veneto” (p. 150). Tuttavia, quando vuole spiegare la mancata reazione a Trebaseleghe davanti alla scoperta del caporalato sotto casa, fa un paragone con la cultura contadina amalgamata con l’identità di paese che, assicura Vanzetto, avrebbero saputo trovare forme di protesta per richiamare il padrone ai suoi doveri paternalistici di buon padre[5]. Come si sa, la città si capisce bene dove inizia e dove finisce, mentre la campagna, più ci si allontana dal centro urbano (nel nostro caso l’area metropolitana sorta in funzione del polo industriale di Porto Marghera) più diventa profonda – ed è lì che si trova Trebaseleghe.
Le mappe mentali non parlano del territorio, ma di modelli di comportamento prescritti e appropriati: non sono carte geografiche ma decaloghi morali. Quando il padrone di Grafica Veneta, come racconta Silvia Ruggeri, dichiara di voler assumere solo veneti, non sta operando una classificazione geografica e territoriale, bensì dichiara che cosa devono o non devono fare i suoi dipendenti. Questo ci spinge ad affinare le nostre mappe, sapendo che in questo modo interveniamo nel conflitto culturale, politico e sociale.
Faccio il pignolo perché le mappe mentali e la percezione del sé, oltre che dipendere dall’angolo di visuale, sono l’esito di un rapporto, di una negoziazione, a volte di fraintendimenti. Non mi stupirei per esempio se Silvia Ruggeri, che si presenta come bergamasca ed europea venisse percepita come veneziana e italiana per il fatto di venire col treno da Venezia, studiare a Ca’ Foscari ed essere accompagnata da mediatori veneziani (o che tali potrebbero essere percepiti a Trebaseleghe). Un’esperienza del genere, ma dalle conseguenze ben più serie, è capitata al Cobas che ha organizzato sindacalmente la protesta dei lavoratori pakistani con l’idea, guardando le cose da Padova, che questi ultimi fossero lavoratori di Grafica Veneta di Trebaseleghe: salvo scoprire che questi lavoratori, tra tutte le identità a cui potevano attingere nel caso di conflitti di lealtà, avevano scelto di presentarsi come fedeli che frequentano la moschea di Padova e come membri di famiglie e comunità del luogo di provenienza in Pakistan.
Naturalmente il comportamento dei lavoratori pakistani fa anche vedere come può essere percepito il sindacato – come una sorta di Caf più che una organizzazione di classe, e in fondo un’organizzazione fatta di bianchi come il padrone della fabbrica e i capi –, ma, per restare al tema che mi sono dato, a me sembra che la vicenda faccia pensare agli dei che vegliano sulle città, che sono di due tipi. Ci sono gli dei che si nascondono nelle cucine, sotto le antenne satellitari e nelle rubriche dei telefonini: sono i Penati, che seguono le famiglie nei traslochi e si stabiliscono nei nuovi alloggi. Ci sono poi i Lari che fanno parte della casa e dei luoghi attorno: gli abitanti possono cambiare ma i Lari restano là, rimpiangendo il tempo in cui il paese era quello che si dice un paese, prima dell’arrivo di ospiti o troppo invadenti o troppo rintanati in casa[6]. Se vogliamo conoscere un luogo e i suoi abitanti facciamo bene a tener presente che i Lari, attaccati sentimentalmente come sono alla piazza e al campanile, si possono vedere, ma i Penati non è detto, soprattutto nei casi, come quelli che stiamo esaminando, di forte mobilità territoriale, di grande turnover nei posti di lavoro, di istantanee connessioni transcontinentali.
3. Chi sta a Mestre si muove come se vivesse al centro di un goniometro da cui partono strade radiali verso la pianura padana, le colline e le montagne, quasi prendesse per guida la carta di Jacopo De Barbari del 1500, che raffigura in modo dettagliato Venezia a volo di uccello, più in là una striscia di pianura con pochi punti di riferimento, e alla fine un orizzonte di montagne dai profili riconoscibili[7]. La descrizione del viaggio che fa Boschiero, in cui una villa veneta fa qua e là da punto di riferimento del paesaggio, mostra quanto sia difficile sottrarsi agli automatismi della percezione, alle gerarchie preorganizzate dagli spazi architettonici, agli sguardi codificati da quanto abbiamo letto e sentito dire: e Boschiero percorre il viaggio proprio per sottrarsi ai condizionamenti, sapendo oltretutto che Porto Marghera – polo industriale e movimento operaio – ha proiettato un cono d’ombra sui territori circostanti[8].
È curioso che chi da Mestre va verso Castelfranco abbia l’idea di fare un percorso a ritroso nel tempo, dal presente al passato, entro un territorio rurale punteggiato di ville venete. È curioso, dicevo, perché se tu prendi la Castellana ai Quattro Cantoni o prendi qualsiasi altra delle strade radiali che escono da Mestre, cominci dapprima col vedere case ed edifici degli anni Venti del Novecento e poi, superato il campo trincerato dei centri commerciali, tanto più avanti vai tanto più le costruzioni, i sottopassi, le strade, le rotonde, i capannoni, le tangenziali, le abitazioni, le villette a schiera, le zone artigianali e industriali, gli outlet e le palme nei giardini diventano più recenti, fino alle fabbriche degli ultimi anni che, avendo divorato tutto lo spazio, crescono in altezza. Perché stentiamo a cogliere questo passaggio dal vecchio al nuovo, e continuiamo a immaginare un viaggio dal presente al passato? Perché siamo abituati a pensare a Mestre come a un luogo della modernità, circondato da un territorio ai margini. Mestre è l’unica città veneta a non dover rendere conto delle proprie scelte e dei propri racconti al lustro e alla nobiltà del passato, a stemmi e a genealogie di notabili municipali: e questo tratto di modernità ha liberato e spero continui a liberare la ricerca storica dal peso delle gerarchie precostituite nei temi d’indagine e negli angoli da cui guardare. Tuttavia il sintagma “trasformazioni novecentesche” in relazione al carattere moderno di Mestre rischia di non farci vedere quanto il Novecento sia un’epoca definitivamente passata e quanto sia nel frattempo cambiato il territorio circostante.
La rappresentazione del “Veneto profondo”, con i relativi contorni di stereotipi e di sfottò, unita alle variazioni sul tema dei rapporti tra Serenissima dominante e città di provincia, fa la gioia delle tifoserie calcistiche, che sono le prime a rendersi conto di quanto di iperbolico ci sia nei loro cori[9]. Tutto ciò che non può essere detto può essere cantato: ma non ha certo un rapporto con la realtà. Oggi Trebaseleghe e immediati dintorni è una zona di grandi industrie. La Stevanato Group, azienda mondiale di contenitori per farmaci occupa più di duemila addetti, Grafica Veneta azienda mondiale per la stampa di libri oltre quattrocento, la Moncler azienda di lusso dell’abbigliamento circa cinquecento. (Non sono sicuro delle cifre, quelle che si leggono a proposito sono discordanti, segno di quanto il territorio rientri nelle mappe tratteggiate alla buona dei territori di frontiera). Confini e mappe mentali permangono a lungo, a dispetto dell’esperienza. Ma in che modo viene assicurata questa continuità? quali sono i centri di elaborazione e di diffusione, e i meccanismi che preservano un ordine simbolico dalle definizioni alternative della realtà? Anche la persistenza richiede una spiegazione, non solo il mutamento. Mi limito a un solo aspetto che può fornire una risposta, e cioè al fatto che la Lega Nord si è presentata negli anni Novanta del Novecento nello spazio pubblico come espressione della campagna, in una sorta di rivalsa antiurbana, rimarcando questa immagine di sé attraverso gli omaggi che il contado deve alla città Dominante. Una ideologia dovrebbe essere decostruita: nel nostro caso si dovrebbe dire che il senso comune leghista è espressione non della campagna ma semmai di una campagna urbanizzata o di una città diffusa (termini che comunque vanno ripensati alla luce delle trasformazioni degli ultimi decenni), non di un territorio ma di un territorio cementificato e da cementificare, non del campanile e della comunità di paese ma dell’uso di reti locali, inserite a loro volta in reti politiche più ampie, nei processi di delocalizzazione e di apertura ai mercati globali; si dovrebbe poi dire che non solo in Veneto, ma anche altrove in Europa, la modernizzazione si è accompagnata al recupero in chiave estetica del passato contadino; ci si dovrebbe infine chiedere quale educazione sentimentale abbia accompagnato l’affacciarsi del consumismo in Italia, fin dai tempi in cui il Carosello nascondeva il prodotto che stava reclamizzando (parlando d’altro e ricordando solo alla fine la marca del dentifricio o del caffè)[10]. E invece l’ideologia è presa sul serio, tanto che il senso comune, e lo stesso senso comune storiografico, individua i caratteri originari del Veneto in una omogenea cultura contadina[11]: stiamo parlando di una regione che nel primo decennio del Novecento è la terza regione industriale in Italia (senza considerare la precedente lunga fase protoindustriale soprattutto nel settore tessile, e senza contare la presenza nella società rurale di uomini e donne che facevano molti lavori oltre che quella dei campi)[12].
4. Volendo storicizzare gli episodi trattati da Silvia Ruggeri, Livio Vanzetto ritiene che la chiave di interpretazione consista nel “rapporto tra il passato e il presente di Trebaseleghe” (p.135). Vanzetto inserisce cioè Grafica Veneta in un paese – Trebaseleghe –, predefinendo così il luogo in cui si svolgono le vicende, e inserendo poi questo luogo in un altro luogo predefinito – il Veneto –, a cui associa una specifica cultura. Ma ha senso fare storie di paesi? E ha senso predefinire i luoghi, che poi riflettono circoscrizioni amministrative e religiose, in cui si svolgono le vicende ed entro cui cercare la spiegazione degli eventi? La rivista Altrochemestre, che Luca Pes e io pubblicammo circa trent’anni fa, proponeva non di fare la storia dei luoghi, ma la storia nei luoghi. Anche il caso come quello di Grafica Veneta dimostra l’utilità di partire dagli individui, dalle loro reti di relazione e dalle loro azioni per costruire via via concetti e categorie in grado di spiegare quello che veniamo a conoscere. Le storie di paese cercano conferme, salvo trovare smentite: le storie nei paesi cercano sorprese. A differenza delle storie di paese, le storie nei paesi consentono di cogliere non solo l’imprevedibilità della vita, ma anche gli spazi di libertà e di autonomia che si possono creare entro la trama dei rapporti di potere e tra i diversi repertori culturali a cui gli individui e le loro reti di relazione possono attingere.
5. Chi studia storia ritrova nelle pagine del libro di Silvia Ruggeri cose familiari: per studiare i flussi migratori conviene guardare alle catene migratorie e al ruolo degli agenti reclutatori; le domestiche piemontesi che lavoravano poniamo a Lione erano controllate da paesani immigrati in contatto con le famiglie e il paese di origine; il comportamento degli operai delle fabbriche minerarie in Sudafrica inurbati di recente era condizionato dalle reti sociali in cui erano inseriti nelle aree rurali da cui provenivano; nel caso di proteste o rivendicazioni contadine i proprietari terrieri veneti potevano contare, oltre che sulla gerarchia di fattori e di guardiani e sugli apparati repressivi statali, sull’opera di mediazione dei vescovi; l’atteggiamento verso i crumiri, che è un elemento centrale nelle lotte bracciantili e operaie, fa capire l’importanza del controllo sul collocamento e quindi invita a guardare all’opera dei mediatori, oggi per esempio cooperative e agenzie interinali[13]; gli studi sul caporalato dimostrano che il caporale, mediatore tra sfere sociali separate, non ricorre solo alla violenza, ma utilizza prevalentemente i linguaggi “dell’onore, del rispetto, della fiducia, della comunità”[14]. Anche nel caso che stiamo esaminando a Trebaseleghe la storia aiuta non tanto a saper raccontare (lascerei lo storytelling ad altre discipline), quanto a costruire uno spazio pubblico in cui discutere fonti, testimonianze, ipotesi di spiegazione, punti di vista, analogie, categorie interpretative, rapporti tra scena e retroscena, primi piani e sfondi.
La costruzione di uno spazio pubblico dovrà essere consapevole di quanto facili siano i fraintendimenti. Aggiungo solo un esempio a quelli che abbiamo fin qui visto: siamo sicuri che l’assunzione a tempo indeterminato sia una richiesta unanime dei lavoratori in appalto? Di sicuro questo è un obiettivo di lavoratori che vivono con le loro famiglie: ai primi di febbraio 2023 infatti, dopo una lunga lotta, quaranta lavoratori bengalesi dipendenti da una ditta di coibentazione in appalto per Fincantieri di Marghera sono riusciti a sottoscrivere un contratto a tempo indeterminato[15]. Sempre alla Fincantieri ci sono però operai bangladesi che a Marghera vivono soli e che magari pensano a trasferirsi in altri paesi europei, e che preferiscono il lavoro a tempo determinato perché così, tra un impiego e l’altro, possono passare lunghi periodi al loro paese: purché naturalmente siano provvisti di permesso di soggiorno sufficientemente lungo[16]. Nel caso di Grafica Veneta l’assunzione diretta a tempo indeterminato potrebbe essere perciò solo in parte volto a soddisfare le richieste dei lavoratori, ma potrebbe essere diretto soprattutto a tacitare l’ambiente vicino al mondo sindacale, abituato a pensare a lavoratori che vivono stabilmente con le loro famiglie vicino alla fabbrica. È un’ipotesi naturalmente. Quello che voglio dire è che gli obiettivi sindacali dipendono dai progetti migratori individuali e di famiglia, su cui influisce in buona misura il ricatto del rinnovo del permesso. Certo, gli esiti degli eventi non si possono mai prevedere. In fondo quanto è successo alla Grafica Veneta potrebbe insegnare che, come si diceva una volta, la lotta paga; e potrebbe verificarsi quello che succedeva nelle campagne padane dei primi anni del Novecento, quando il caporale poteva trasformarsi da reclutatore di manodopera a organizzatore sindacale[17].
6. Silvia Ruggeri chiude il libro cercando di rispondere alla domanda “che cosa fare?”, indicando “la necessità impellente di guardare al sistema degli appalti e al caporalato, per comprendere i cambiamenti nel mondo del lavoro e nella società che ci sta intorno” (p. 117). Alla stessa domanda Alfiero Boschiero pensa che ci sia bisogno di “politica”, di cui lamenta in più punti l’assenza[18].
Per quanto mi riguarda, nel rivolgermi alla gioventù studiosa, credo ci sia bisogno della costruzione di un immaginario letterario, artistico e storiografico, ciascuna disciplina con i propri saperi e il proprio linguaggio. Non parlerei di un immaginario dell’opposizione, perché si porterebbe dietro il lessico confuso del massimalismo e una distanza da quello che si è e quello che si pensa di essere. Non si tratta tanto di opporsi a qualcosa, ma di esercitare uno sguardo critico e di costruire reti sociali. Parlerei perciò di un immaginario radicale, basato sulla conoscenza empirica, sulla capacità di provare stupore e indignazione, sulla coerenza tra cose che si dicono e cose che si fanno, sulla fiducia nell’importanza della trasformazione dei costumi (innanzitutto i propri) nei cambiamenti sociali, sulla volontà di documentare il presente, sull’ascolto delle voci e degli esempi di chi ci ha preceduto nel passato, e infine sull’attenzione alle cose nuove che nascono anche in luoghi in cui, come a Trebaseleghe, non ci si aspetta di trovarle a causa dell’inerzia del senso comune, oltre che del sistema dell’informazione e dei media.
Un nuovo immaginario, che ripensi al senso della vita personale e della vita passata al lavoro, richiede a chi fa ricerca, soprattutto all’università, di riflettere sul fatto che sta facendo un lavoro, non sta semplicemente osservando il lavoro altrui: si dovrà pertanto porre domande sul senso dei propri studi, su chi valuta i risultati, su chi siano i committenti, su quale sia la divisione del lavoro all’opera nella sua ricerca (progetto, partecipazione a un bando, esecuzione, valutazione), e così via. Le domande che nascono nei luoghi di lavoro riguardano anche chi fa altri lavori in altri luoghi. La lotta della GKN a Campi Bisenzio in Toscana, tuttora aperta anzi giunta a una fase decisiva, ha dimostrato infatti come la conflittualità nei luoghi di lavoro consenta il formarsi di un discorso non vittimistico sul lavoro, e una socialità che vede nel territorio non più un luogo di sfruttamento di risorse o di passaggio di merci ma di scambi di esperienze umane. Bisognerà riflettere sulle differenze, a partire dal fatto che le relazioni tra operai nella ex-GKN ricordano le esperienze che riconosciamo come familiari per il Novecento, pensiamo per esempio a una mensa che favorisce forme di socialità e alla presenza di un collettivo autonomo rispetto al sindacato: ma mi auguro che esperienze analoghe a quella sviluppatasi a Campi Bisenzio possano realizzarsi anche “a ovest di Mestre”, grazie a quanto è successo e continuerà a succedere, e grazie a quanto riusciremo a documentare e a discutere in pubblico.
[1] Testo discusso con Filippo Benfante e Luca Pes, che qui ringrazio; grazie a mia moglie Giannarosa.
[2] Al Amin Rabby, Fincantieri: lavoro migrante precario e appalti nella grande industria di Stato, “Gli asini”, n.s. n. 109 (luglio-agosto 2023), pp. 24-27.
[3] Alfiero Boschiero, Il lavoro s-perduto tra Santa Maria di Sala e Trebaseleghe, cercasi politica, in “Officina Primo Maggio”, n. 5 (giugno-luglio 2022).
[4] Francesco Targhetta, Le vite potenziali, Mondadori, Milano 2018, p. 53.
[5] Vanzetto non si riferisce a eventi successi realmente a Trebaseleghe ma a quelli che sarebbero potuti succedere in base alla cultura contadina, e che accaddero altrove, nel Trevigiano a fine Ottocento o nel Sud Est Asiatico.
[6] Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1997, pp. 78-79.
[7] Piero Brunello, Mestre è un goniometro [2007], in Id., Dubbi sull’esistenza di Mestre. Esercizi di storia urbana, Cierre, Sommacampagna (VR) 2023, pp. 67-71.
[8] Alfiero Boschiero, Se un giorno un viaggiatore… Il multiverso degli interessi e dei lavori nel Veneto del capitalismo flessibile, in “Il De Martino. Storie voci suoni”, n. 32 (2021), pp. 21-25, consultabile online file:///C:/Desktop/De-Martino-32-def.pdf; la villa del Palladio è quella a Piombino Dese.
[9] Filippo Benfante, Piero Brunello, “Radicchi trevigiani” e “scimmie gialloblù”. Note sui repertori di segni, simboli, slogan, modi di dire, tradizioni orali, ideologie politiche e confini mentali, in Lettere dalla curva sud. Venezia 1998-2000, Odradek, Roma 2001, pp. 139-166.
[10] Piero Brunello, Carosello e folk revival [2017], in Id., Gondole a Feltre. Domande di oggi, storie di ieri, Cierre, Sommacamopagna (VR) 2022, p. 129.
[11] Una recente tesi di laurea (““”Ièrimo tutti contadini”. Storie di famiglie rurali nella “grande trasformazione”, laureanda Laura Rizzetto, rel. Gilda Zazzara, a.a. 2022-23) mostra come un territorio con una forte presenza industriale e artigianale fin dal secondo dopoguerra (ma anche prima) venga oggi raccontato, e non da contadini ma da abitanti della piazza, come un territorio contadino.
[12] Giorgio Roverato, L’industria nel Veneto. Storia economica di un “caso” regionale, Esedra, Padova 1996, dimostra quanto infondato sia il “senso comune” secondo cui la nascita dell’industria nel Veneto sia “un fenomeno recente, grosso modo collocato tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento”, indagandone viceversa “le radici antiche” (Premessa, p. 9).
[13] A proposito di crumiri notare l’atteggiamento ambivalente nella tradizione del movimento operaio: “O cara moglie, dovevi vederli / venir avanti curvati e piegati; / e noi gridare: crumiri, venduti! / e loro dritti senza piegar. // Quei poveretti facevano pena / ma dietro loro, là sul portone, / rideva allegro il porco padrone: / l’ho maledetto senza pietà” (Ivan Della Mea, Cara moglie, 1966).
[14] Domenico Perotta, Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del caporalato in agricoltura, in “Meridiana”, n. 79 (2014), p. 194 [pp. 193-220]; gli studi e le inchieste sul caporalato in agricoltura (studiatissimo è il sistema migratorio che unisce Messico e Stati Uniti) mostrano “come la strutturazione delle reti migranti sia influenzata in maniera decisiva dalle necessità e dalle richieste del mercato del lavoro del territorio di arrivo” (ivi, p. 205).
[15] Nicola Quondamatteo, Davide migrante contro Golia Fincantieri, in https://jacobinitalia.it/davide-migrante-contro-golia-fincantieri/ ,10 febbraio 2023.
[16] Rabby, Fincantieri cit., p. 27. Sul ricatto del rinnovo del permesso di soggiorno come “fattore disciplinante all’interno del posto di lavoro” vedi Nicola Quondamatteo, Dentro le navi, il mondo intero. Un’analisi del sistema degli appalti nel caso Fincantieri, in “Quaderni di rassegna sindacale”, 2023, n. 2,p. 55.
[17] Michele Nani, Stampa di classe e mobilità nelle campagne ferraresi: “La Scintilla” (1901-1904), in Lavoro mobile. Migranti, organizzazione, conflitti (XVIII-XX secolo), a cura di Michele Colucci e Michele Nani, Società italiana di storia del lavoro, Quaderno n. 1 (2015), pp. 69-70; si veda anche Passato e presente delle migrazioni bracciantili, a cura di Michele Colucci, Stefano Gallo, Michele Nani, “Archivio Storico dell’Emigrazioni Italiana”, n.16-17 (2020-2021).
[18] Si veda la conclusione di Boschiero, Il lavoro s-perduto cit., p. 25 (“Urgono visione, discorso pubblico, politica”).
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